Mariano Rajoy al comitato esecutivo PP (foto LaPresse)

L'intrico di linee rosse da superare per fare un governo in Spagna

Guido De Franceschi
Se ogni partito resta nel proprio recinto, si rivota. Chi (e quando) muoverà il primo passo per il compromesso?

Milano. Nel poco spazio lasciato libero dall’entusiasmo per l’estrazione dei biglietti vincenti della ricchissima Lotería de Navidad, la locuzione più in auge nella Spagna post elettorale è “líneas rojas” (linee rosse). Gli editoriali e le analisi del País, per esempio, ruotano ossessivamente attorno a questo concetto. Le linee rosse in questione sono i “non possumus” dei vari partiti – e, si presume, dei loro elettorati. I tabù, i “questo mai”, le condizioni sine qua non, i paletti. Sono, peraltro, linee rosse non molto sottili. Anzi, il terreno su cui andrebbe costruito entro tre mesi circa un accordo che possa condurre a un qualsivoglia governo è un labirinto di linee rosa, rosse e rossissime che nessuno sembra, almeno in prima istanza, disposto a calpestare neppure con la punta della scarpa. Ma se tutti rimanessero all’interno del proprio recinto sarebbe pressoché inevitabile un ritorno alle urne. Una soluzione che rischierebbe di “ellenizzare” la Spagna e che molti, anche tra i più occhiuti custodi delle linee rosse, vorrebbero evitare.

 

Il premier uscente Mariano Rajoy è arrivato primo con un ampio margine sul Partito socialista, e non vuole a nessun costo né cedere la primazia governativa dei popolari né cedere ad altri (compagni di partito o no) la sua personale leadership. Intanto l’ex premier José María Aznar ha auspicato, all’indomani del voto, un congresso di partito “urgente” e “aperto” per eleggere un nuovo leader. Rajoy si è subito fatto avanti: “Me veo con fuerzas!”, ha detto, assicurando di sentirsi in formissima. Se Rajoy cedesse il posto al socialista Pedro Sánchez, che ha portato il Psoe al più disastroso risultato della sua storia, trasformerebbe la mezza vittoria elettorale del Partito popolare in una débâcle, anche personale. Per Rajoy, difendere il diritto di precedenza suo e del Pp è quindi una linea rossa.

 

I socialisti non vogliono però accettare di fare i junior partner in un’inedita grande coalizione e neppure dare sic et simpliciter il loro consenso, anche soltanto con un’astensione, a un nuovo governo Rajoy: per loro è una linea rossa. Sánchez – che rileva come la maggioranza dei voti, seppur frammentariamente, sia andata a sinistra – non vuole accettare un nuovo governo a guida popolare, come se Rajoy non avesse perso in un solo colpo 63 dei suoi 186 seggi, tre milioni e mezzo di voti e la maggioranza assoluta. In campagna elettorale Sánchez ha già dovuto barcamenarsi tra due parti in commedia, come leader di uno dei grandi partiti tradizionali e come faccia credibile del rinnovamento richiesto dagli elettori “anticasta”. Se ora il suo contributo a questo rinnovamento si riducesse all’avallo, per senso di responsabilità, a un governo Rajoy, una parte dell’elettorato del Psoe insorgerebbe e ne risulterebbe compromessa la sua posizione di leader, già minacciata dalle mire madrilene della presidente andalusa Susana Díaz. D’altra parte, il Psoe non può fare facili accordi con Podemos e con altre forze minori di sinistra, per non valicare un’altra linea rossa: i socialisti non possono accettare la proposta di Podemos, che preme per una riforma costituzionale che consenta alle regioni di convocare referendum di autodeterminazione. A parte il fatto che il Partito popolare ha i voti per porre il veto a una siffatta iniziativa, il Partito socialista, che ha vinto soltanto in Andalusia e in Estremadura – due regioni che, per la loro profonda hispanidad e per la loro disastrata situazione economica, sono ostilissime alle altrui tentazioni secessioniste – non può accettare i diktat referendari del movimento di Pablo Iglesias: è una linea rossa.

 

Da parte sua, Podemos non può rinunciare a porre come condizione la riforma costituzionale. La sua rimonta elettorale è dovuta in buona parte a patti asimmetrici con forze locali e ha anche ricevuto in prestito molti voti da elettori indipendentisti, ingolositi dal primo leader nazionale che, pur senza sposare le istanze secessioniste, parla esplicitamente di diritto all’autodeterminazione. Iglesias non può rimangiarsi la parola data sul referendum, se non vuole perdere una porzione determinante dei consensi che ha raccolto nelle ultime settimane: per lui è una linea rossa. Non bastasse, proprio in questi giorni in Catalogna le varie anime dell’indipendentismo stanno cercando di confezionare un acrobatico governo, la cui eventuale nascita potrebbe influenzare il dibattito a Madrid.

 

Per Ciudadanos la linea rossa, oltre al “no” a ogni pulsione referendaria, non c’è, in virtù della sua essenza di partito più “coalizionabile” di tutti gli altri. Il leader di Ciudadanos, Albert Rivera, prendendo come punto di partenza il suo 14 per cento, vuole costruire un centro, proporsi come un nuovo Adolfo Suárez, facilitare un governo (fragile) altrui, per poi veder vivacchiare male questo esecutivo, dimostrare che i “vecchi”, sia popolari sia socialisti, non sono all’altezza di interpretare i nuovi orizzonti della politica e infine proporsi la prossima volta come un leader moderno, capace di rappresentare il perno di un nuovo equilibrio.

 

 

L’assenza di conoscenza sulle coalizioni

 

Al di là del groviglio di linee rosse, il problema è che il fin qui rigorosissimo bipartitismo spagnolo non conosce le regole del gioco delle coalizioni. Non ci sono precedenti, non c’è una prassi da seguire, non ci sono governi Spadolini o pentapartiti del passato a cui ispirarsi. Ci sono, tutt’al più, esperienze locali. Ma si tratta di tradizionali alleanze di centrosinistra o di centrodestra, che non sono numericamente riproponibili a livello nazionale. Oppure di casi eccezionali, come l’appoggio esterno del Pp al Psoe nei Paesi Baschi (lì, la linea rossa era condivisa: arginare il nazionalismo negli anni in cui i terroristi di Eta erano in crisi di consenso, ma ancora attivissimi). Oppure ancora di conventio ad excludendum, in cui un eterogeneo gruppo di partiti taglia fuori i vincitori del Partito popolare. Questa è la soluzione che Sánchez accarezza, ma senza troppa convinzione. Il leader socialista sa infatti che, sposandosi con Podemos e con una galassia di gruppi localisti, rischierebbe di incappare in un’ulteriore linea rossa. Già annodata in un cappio.

 

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