John Kerry e Sergei Lavrov (foto LaPresse)

Kerry a Mosca e Assad a Teheran

Redazione
Gran lavorìo diplomatico, ma le strategie sul campo rivelano le crepe

Avresti bisogno di un po’ di riposo”, ha detto il presidente russo Vladimir Putin al segretario di stato americano, John Kerry, arrivato a Mosca per parlare di Siria con il suo omologo Sergei Lavrov. Putin ha fatto il Putin, Kerry ha suonato le note più melodiose del suo repertorio: “La Russia sta dando un grande contributo – ha detto – al progredire della situazione in Siria”. Il suo viaggio conferma ancora una volta che la Russia è uscita dall’isolamento diplomatico in cui era finita per la gestione del dossier ucraino, grazie all’intervento armato in Siria. Come sempre quando si tratta di Siria, tuttavia, i fatti sul campo parlano più forte delle dichiarazioni. L’incontro conciliante di Mosca è lontano dal terreno di guerra.

 

Il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo per spiegare perché, anche se lo volessero, Washington e Mosca avrebbero difficoltà a collaborare in Siria. Tattiche troppo diverse, i jet americani colpiscono, in punta di fioretto e con coordinate satellitari molto precise, una lista rarefatta di bersagli selezionati dello Stato islamico; gli aerei russi bombardano tanto e sparpagliati, con ordigni a caduta libera, contro obiettivi non sempre dello Stato islamico. “Fanno come in Cecenia”, dice Michael Clarke, un esperto del think tank militare Royal United Services Institute di Londra, riferendosi alla guerra degli anni Novanta dove l’esercito russo ordinò bombardamenti brutali. Intanto però Ashton Carter, segretario alla Difesa americano, richiama anche l’alleato turco a “fare di più nella lotta contro l’Isis”. Mentre il presidente siriano Bashar el Assad torna alla sua stella polare, l’alleanza con l’Iran, e annuncia una visita a Teheran per il 10 gennaio.

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