Il presidente turco Tayyip Erdogan il 15 novembre scorso, durante l’apertura dei lavori del summit del G20 che si è svolto ad Antalya (foto LaPresse)

I sedici giorni del terrore

Mario Sechi
Due documenti riservati dimostrano perché l’Europa, colpita al cuore a Parigi, ha consegnato le chiavi dei suoi confini a Erdogan, e alle sue “minacce”. Cronistoria, con un retroscena inedito.

Questa è una storia che comincia una sera di novembre in Francia, il venerdì 13. Questa è una storia che parte dal sangue del teatro Bataclan, passa in Belgio, fa scalo in Turchia e atterra in Siria. Questa è una storia di diplomazia, di guerra, di silenzio, di menzogna, di minacce e di paura. Questa è la storia dei sedici giorni che hanno sconvolto l’Europa: una strage a Parigi, truppe speciali a Bruxelles, l’esercito al Giubileo a Roma, mentre il Papa parla di pace. Non siamo in guerra, siamo dentro la guerra.
Venerdì 13. Comincia tutto quella sera. Francia e Germania stanno giocando la partita quando Hollande allo Stade de France viene informato dell’attacco, i servizi segreti di tutta Europa sono alla disperata ricerca non del nome (sanno già che è Isis) ma del come sia stato possibile. Sono saltati i confini. La Francia non è protetta, l’Europa è colta di sorpresa, disarmata, senza scudo. Hollande quella sera stessa dichiara guerra allo Stato Islamico. Inizia così la storia dei sedici giorni che hanno cambiato l’Europa: dal 13 al 29 novembre al più alto livello delle istituzioni europee accadono fatti e si prendono decisioni che sono destinati a mutare l’assetto dell’Unione, il suo significato, la vita dei suoi cittadini. E’ una storia che il Foglio ha ricostruito attraverso fonti confidenziali e documenti riservati di cui è in possesso.

 

Saltano i confini. Al centro della scena c’è la proiezione più estrema del confine dell’Europa: la Turchia e quella striscia di terra lunga 1.266 chilometri che la separa e congiunge a Siria e Iraq, il confine della guerra. Dopo il venerdì 13 di Parigi, l’Unione europea apre gli occhi e guarda con terrore ai suoi confini, sono materiale radioattivo. Due i fronti aperti: a sud-est la Turchia è l’avamposto e la Grecia il checkpoint della migrazione che parte da Siria e Iraq. A sud, nel cuore del Mediterraneo, a soli 300 chilometri dalla Sicilia, c’è la Libia con i suoi 1.200 chilometri di inferno sulla striscia costiera da Tripoli a Tobruk. Fino al venerdì 13 novembre quei confini erano un problema di immigrazione, dopo la strage di Parigi sono diventati ufficialmente anche un problema di terrorismo. Turchia e Grecia sono inaffidabili, Erdogan e Tsipras usano il flusso di immigrati come un rubinetto che aprono e chiudono per far sentire la pressione sull’Europa. E’ una lunga storia di denaro, influenza politica, minacce. Sulla costa libica c’è una forza navale europea che ha un ruolo di polizia marittima, ma non ferma il caos e il futuro è affidato a una conferenza di pace (si svolgerà a Roma) che dovrebbe avere la ciclopica forza di disarmare le milizie, far cessare la guerra civile e far muovere i libici come un sol uomo contro le milizie di Isis. Prometeico.

 

Il calendario. Il destino si diverte a giocare a dadi con i fogli del calendario. Dopo il venerdì 13 l’Unione europea vara in brevissimo tempo una serie di misure straordinarie per il controllo dell’immigrazione e del terrorismo. Il sangue del Bataclan s’imprime sulle pagine dell’agenda. Ecco la sequenza impressionante di fatti: 1. Il 13 novembre un commando di affiliati di Isis uccide 130 persone a Parigi; 2. Il 15-16 novembre si riunisce il G20 a Antalya (Turchia); 3. Il 20 novembre a Bruxelles si riunisce il Consiglio giustizia e affari interni (Gai), è un vertice straordinario dei ministri europei dell’Interno e della Giustizia; 4. Il 24 novembre un jet russo Sukhoj 24 viene abbattuto dagli F-16 turchi sul confine tra Siria e Iraq; 5. Il 28 novembre Tahir Elci, un avvocato curdo noto per la sua difesa di esponenti del Pkk, viene assassinato a Diyarbakir, nel sud est della Turchia, mentre parla con i giornalisti vicino a una moschea del distretto di Sur; 6. Il 29 novembre si tiene a Bruxelles un vertice europeo dei capi di stato con la Turchia. L’urgenza dell’Unione è quella di mettere al sicuro il confine siriano. Gli eventi ruotano tutti intorno alla figura di Erdogan, interprete del ruolo “doppio” della Turchia.

 

Il jet russo. Dal 13 al 26 novembre trascorrono sedici giorni ad altissima tensione ai vertici delle istituzioni europee. Dietro le quinte c’è uno scontro con la Turchia sui reciproci impegni con l’Europa. Il 24 novembre un altro evento taglia in due l’agenda e imprime un’accelerazione alle trattative: un jet russo Sukhoj 24 viene abbattuto dagli F-16 di Ankara. Alle 8:53 del mattino Reuters lancia la notizia: “Aereo da guerra si schianta vicino alla frontiera con la Turchia. Lo ha riferito l’emittente turca Habertuk che ha mostrato un video del velivolo in fiamme”. Alle 9:45 la Cnn Turk conferma: “Il jet abbattuto in Turchia è un Sukhoj 24 probabilmente dell’aviazione russa”. Alle 14:04 Reuters e France Presse mandano in rete la reazione di Vladimir Putin che parla dal Cremlino: “E’ una pugnalata alla schiena compiuta dai complici dei terroristi”. Alle 15:43 il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov annulla la prevista visita in Turchia. Alle 19:19 la Nato, dopo una riunione straordinaria del Consiglio, appoggia l’alleato Erdogan, mentre il segretario Jens Stoltemberg cerca di raffreddare la situazione: “Invito tutti alla calma e alla de-escalation. Il nemico comune è Isis”. Nemico anche dei turchi? Visti i fatti, è difficile da raccontare, ma la Nato a trazione americana pensa che ci sia un altro nemico: la Russia. “Per un momento, abbiamo temuto che la Russia reagisse militarmente all’abbattimento, eravamo colpiti dalla freddezza dei turchi, sono stati loro a chiedere subito una riunione urgente della Nato”, racconta al Foglio una fonte interna al Consiglio.

 

Il vertice dei capi di stato. La crisi tra Putin e Erdogan mette il turbo alle decisioni del vertice europeo dei capi di stato del 29 novembre. L’Europa è sotto choc, impaurita, la Francia è in guerra, la portaerei Charles De Gaulle è già al largo delle coste siriane, Regno Unito e Germania si sono schierati con Hollande, l’Italia sta come sempre alla finestra, nessuno vuole mettere i boots on the ground. Di fronte a un gruppo di interlocutori così diviso Erdogan ottiene il massimo risultato: 1. Riparte e si velocizza il processo di integrazione della Turchia nell’Unione europea; 2. Con questo obiettivo si terranno incontri periodici e due vertici annuali tra Europa e Turchia; 3. Piovono nelle casse di Ankara tre miliardi di euro di aiuti finanziari per controllare l’immigrazione. Strike. Erdogan atterra sull’obiettivo con gli artigli di un falco, dispiega una sottile e tagliente regìa politica e una precisa divisione dei compiti con il primo ministro Ahmet Davutoglu. Il presidente batte i pugni, il premier dialoga. Una trattativa spietata in cui la Turchia ha il coltello dalla parte del manico. Erdogan lo sa e gioca tutte le sue carte con abilità e sangue freddo.

 

I documenti. E’ uno scenario che emerge dai documenti diplomatici di cui il Foglio è in possesso. Sono due note del 17 novembre, firmate dall’ambasciatore Stefano Sannino, rappresentante italiano permanente dell’Italia presso l’Unione europea, che informano sulla discussione avvenuta all’interno del Cosi (il Comitato permanente per la cooperazione operativa in materia di sicurezza interna) e del Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti, l’organo che prepara i lavori del Consiglio Europeo). Le note dell’ambasciatore Sannino sono un  debriefing che serve alla preparazione del vertice europeo dei ministri dell’Interno e della Giustizia del 20 novembre e il successivo summit dei capi stato europei con la Turchia del 29 novembre. I documenti sono spediti in orari diversi: la prima nota è delle 17:40, la seconda delle 18:50. La loro lettura fornisce un quadro esauriente della situazione dopo il venerdì 13 di Parigi: terrorismo e immigrazione, controllo dei confini via mare e via terra, dei passeggeri sui voli di linea (istituzione del Pnr, Passenger name record) e del traffico d’armi, sono gli anelli di una catena rovente e la Turchia è considerata indispensabile per contenere i rischi alle porte dell’Europa.

 

Le minacce di Erdogan. Inquietanti sono i dettagli di un incontro tra Jean Claude Juncker (presidente della Commissione Ue), Donald Tusk (presidente del Consiglio) e Recep Tayyip Erdogan (presidente della Turchia) ai margini del G20 di Antalya. Lasciamo che sia la nota di Sannino a descrivere il clima del colloquio: “Nel corso dell’odierno Coreper, il Segretario generale del consiglio, Jeppe Tranjolm-Mikkelsen, ha svolto un’informativa, in formato ‘Ambassador only’, sugli esiti degli incontri avuti dai presidenti Tusk e Juncker con le autorità turche, svoltisi il 16 novembre u.s. a margine del G20 di Antalya. Si è trattato in particolare di due incontri: uno del presidente Tusk con il primo ministro Davutoglu ed un altro dei presidenti Tusk e Juncker con il Presidente Erdogan. Il segretario generale, che ha precisato di svolgere il ‘debriefing’ sulla base degli elementi fornitigli dal capo di gabinetto del Presidente Tusk, Piotr Serafin, ha definito ‘difficile’ l’incontro con Erdogan che ha chiesto all’Ue rispetto per le istanze della Turchia e di mantenere gli impegni assunti (a margine del Coreper, Tranholm-Mikkelsen mi ha peraltro confidato che il colloquio con Erdogan è stato intriso di ‘minacce’)”. Minacce?  Alt, fermiamo la lettura del documento. Quali minacce? Cosa ha detto Erdogan ai presidenti Tusk e Juncker? L’informativa diplomatica non chiarisce questo episodio tanto grave da esser sottolineato due volte nell’informativa, la nota non si spinge oltre, ma è un punto delicatissimo perché stiamo parlando di una trattativa al massimo livello in cui i capi dell’Unione europea (Juncker e Tusk) stanno consegnando le chiavi dei confini del Vecchio continente a Erdogan che durante la trattativa “minaccia” qualcosa. E’ un particolare del documento in possesso del Foglio che fa venire i brividi e getta un’ombra sull’affidabilità di Ankara, sulla qualità e sulla tenuta dell’accordo.

 

Le richieste della Turchia. Ergodan è un falco, uno specialista delle maniere forti, ma la Turchia è anche la storia di Bisanzio e il leader sa essere doppio e triplo, felpato e scartavetrato, caldo e freddo, ruvido e vellutato. Alla minaccia, seguono le richieste, elencate nella nota diplomatica: “Il capo dello stato turco avrebbe in particolare richiesto: l’apertura di sei capitoli negoziali; finanziamenti per 3 miliardi di euro all’anno (e non spalmati su due anni); l’accelerazione del processo di liberalizzazione dei visti; la convocazione del vertice Ue e Turchia; l’avvio del programma di ‘resettlement’ dalla Turchia”. La strategia del pugno d’acciaio di Erdogan è efficace, di fatto tutte le richieste del presidente turco sono accettate dall’Europa. Con un particolare che dice quanto Erdogan sia stato convincente: sui 3 miliardi di finanziamenti è sparito il riferimento al “biennio”, non c’è più un termine temporale.  Tre miliardi di euro e verifiche sul programma tutte da inventare, ma niente calendario. Follow the money. Chi paga? E’ la parte più difficile da far digerire. I paesi dell’Unione vorrebbero un contributo totalmente a carico del bilancio di Bruxelles, anche per evitare imbarazzanti passaggi parlamentari, ma lo schema in discussione sul tavolo è questo: “L’Esecutivo Ue prevede il seguente schema di finanziamento: dei tre miliardi di euro complessivi, 500 milioni proverrebbero dal Bilancio Ue e i restanti 2,5 miliardi da contributi fuori bilancio degli Stati membri calcolati sulla base della chiave di contribuzione al bilancio Ue. La Facility si sostanzierebbe pertanto in un fondo extra bilancio, sull’esempio del Fondo europeo di sviluppo”. Tutti, maledetti e subito. Cash. Mentre Erdogan mette Juncker e Tusk di fronte alla dura realtà, il premier Davutoglu veste i panni del capo di un governo a maggioranza islamica che vuole entrare in Europa. E’ una strategia raffinata. E la nota diplomatica non manca il punto: Davutoglu “ha in particolare richiesto che si preveda la tenuta di Vertici Ue-Turchia su base periodica regolare”. Risultato ottenuto. E vittoria del doppio turco in tre set con smash finale.

 

[**Video_box_2**]Europa indecisa a tutto. Tutti d’accordo nell’Unione? Il giro di tavolo degli ambasciatori racconta l’indecisione su tutto, emergono le linee di frattura tra i paesi e la forza paralizzante della paura. L’ambasciatore Sannino mette nero su bianco la posizione dell’Italia sull’accordo con la Turchia: “In proposito sono intervenuto, osservando che è essenziale promuovere un partenariato omnicomprensivo, tale da includere la collaborazione in materia migratoria (obiettivo immediato) nell’ambio di un contesto strategico di più ampio respiro, che consenta anche tatticamente all’Unione di non subire l’agenda legata all’intensità della dinamica dei flussi migratori”. E gli altri paesi che dicono? Ci sono alleati con l’Italia? “Tale impostazione è stata sostenuta dai colleghi di Belgio, Spagna, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia e Bulgaria”. Andiamo avanti. Contrari? Repubblica Ceca, Lituania, Polonia e Slovacchia puntano a risolvere il problema più urgente, l’immigrazione. L’Ungheria è su posizioni più radicali, diffida di Erdogan, non vuole “fughe in avanti” nei rapporti con Ankara, cui l’Ue non deve fare inopportune concessioni, dovendo l’Ue in primo luogo concentrarsi sul controllo della propria frontiera (che non deve essere delegata alla Turchia). E i tedeschi cosa ne pensano? Il governo di Angela Merkel ha 950 mila profughi siriani da gestire, un flusso continuo di uomini, donne, bambini in fuga dalla guerra, i sondaggi in picchiata. Per Berlino l’imperativo è regolare l’ondata migratoria. Dunque impegno e un programma graduale è la linea tenuta dall’ambasciatore Reinhard Silberberg: “L’Unione europea ha una richiesta nei confronti della Turchia (la gestione controllata dei flussi), mentre Ankara ne avanza quattro”. Pragmatismo teutonico. E la Francia colpita dall’Isis, la Francia in guerra in Siria cosa propone? “L’ambasciatore Sellal ha sottolineato che alla luce dei tragici attacchi di Parigi anche la collaborazione con la Turchia debba essere inserita in una prospettiva di coinvolgimento nella lotta al terrorismo internazionale”. E’ la posizione più chiara e saggia, è lo sguardo lungo di chi ha visto il sangue scorrere a Parigi. Venerdì 13. Ma non sarà la proposta che poi vincerà nel vertice dei capi di stato dell’Unione del 29 novembre. Il passo è lungo. L’Unione ha deciso che la Turchia, un paese di 80 milioni di abitanti, con un’età media di 30 anni, al novanta per cento composta da musulmani sunniti, la Turchia che abbatte jet di un’altra nazione impegnata nella guerra contro Isis e non si scusa, la Turchia che fa la guerra ai curdi e lascia indisturbati i macellai dell’Isis a Kobane, la Turchia delle “minacce” ai vertici europei, quella Turchia corre a gran velocità verso l’Europa. Un partner tanto affidabile da esser così descritto da Ashton Carter, segretario della Difesa americana, il 1° dicembre scorso durante un’audizione parlamentare: “La Turchia non ha in realtà mai controllato i propri confini da quando lo Stato islamico ha cominciato a crescere e svilupparsi”. A questa Turchia, sono state date le chiavi dei confini dell’Europa. Buona fortuna.