Due copertine di Dabiq, la rivista propagandistica dello Stato islamico

Ci vediamo a McDabiq

Redazione
Lo Stato islamico sfida l’occidente, in palio c’è la fine dei tempi

Ieri il New York Times ha pubblicato un pezzo molto interessante in cui due osservatori molto bravi, la giornalista Rukmini Callimachi e il professore Jen-Pierre Filiu, spiegavano che lo Stato islamico muore dalla voglia di vedere l’America lanciare operazioni di terra in Iraq e Siria, e soprattutto attorno al piccolo villaggio di Dabiq, vicino Aleppo. In questo modo si realizzerebbe la profezia che annuncia uno scontro apocalittico tra l’esercito dell’islam e le armate dei crociati e questo accende le fantasie millenariste dei combattenti di Abu Bakr al Baghdadi. Il pezzo sostiene che sarebbe meglio evitare di aliementare quella visione e quindi tenersi alla larga da Dabiq (che conosciamo anche perché è il nome della rivista ufficiale dello Stato islamico ed è il luogo dove è stato ucciso l’ostaggio americano Abdul Rahman Kassig).

 

Ora, si sa che la prima grande crisi dello Stato islamico arrivò in Iraq quando l’utopia del Califfato s’infranse sotto i colpi della counterinsurgency americana: i volontari tornarono da dove erano venuti, il numero degli attacchi crollò, una parvenza di sicurezza tornò nel paese – e tutto perché una sconfitta militare sul campo aveva sbugiardato la visione degli zarqawisti. Ora, la domanda è: se Dabiq è la scena della trappola, non converrebbe allora ingaggiare sul serio battaglia e smentire la visione dell’Apocalisse? Un paio di divisioni corazzate a Dabiq, con supporto aereo ravvicinato, per sfidare in una guerra convenzionale – come è successo a Kobane – l’esercito del Califfato. Se hanno ragione loro, allora quel villaggio sarà la fine dei tempi. Se ha ragione l’occidente, ci si apre un McDonald’s.

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