Una centrale a carbone in Polonia (foto LaPresse)

Perché la Polonia populista rifugge il populismo climatico europeo

Matteo Tacconi
Varsavia difende il suo carbone in chiave anti russa. In vista della Conferenza di Parigi hanno assunto una posizione di disturbo all’interno della famiglia europea, allineata sugli obiettivi che s’è data poco più di un anno fa: 40 per cento di tagli alle emissioni, entro il 2030, rispetto al 1990.

Roma. I polacchi non pretendono di smontare i dogmi dei cambiamenti climatici. Non sono ideologici. Però in vista della Conferenza di Parigi hanno assunto una posizione di disturbo all’interno della famiglia europea, allineata sugli obiettivi che s’è data poco più di un anno fa: 40 per cento di tagli alle emissioni, entro il 2030, rispetto al 1990.

 

Varsavia, dove sono tornati al potere i populisti, trionfatori delle elezioni del 25 ottobre, li reputa troppo ambiziosi. Ma non ha la forza politica per imporne la rimodulazione al ribasso. La capacità di spostare equilibri rimane limitata e così sarà fintanto che resterà fuori dall’Eurozona, dicono non a torto molti analisti.

 

Malgrado questo qualcosa si può ottenere. Una deroga, un diritto a sfondare i limiti. La Polonia dipende fortemente dal carbone, da cui deriva il 90 per cento dell’energia prodotta a livello nazionale. Tutto questo si traduce in inquinamento, figurarsi. Nelle città situate nei distretti minerari o a ridosso di essi l’aria è pesante, viscosa. Eppure se si dovessero rispettare i limiti fissati dall’Ue, anche con il voto del precedente governo polacco, a matrice centrista, la “locomotiva dell’est” dovrebbe rinunciare alla sua felice congiuntura di crescita. E se ciò accadesse avrebbero da perderci anche le grandi aziende occidentali, tedesche in primis, che nel corso degli anni hanno spostato segmenti di produzione nel paese o si sono ritagliate buoni spazi di manovra sul suo mercato interno.

 

Intendono bruciare vantaggi del genere? Questa la domanda implicitamente scagliata dai nuovi governanti di Varsavia. Che ricordano anche la dipendenza in fin dei conti tollerabile, assicurata proprio dal carbone, che il paese ha nei confronti del gas russo. Il resto d’Europa ne importa decisamente di più. In altre parole, senza un po’ di flessibilità si correrebbe il rischio di consegnarsi a Mosca, visto che appare difficile praticare nel breve periodo l’alternativa sostenibile (la quota delle rinnovabili non va oltre il 7 per cento).

 

Il gesto con cui la Polonia ha rotto gli indugi è stato il veto con cui il presidente della Repubblica, Andrzej Duda, ha respinto un emendamento al protocollo di Kyoto. L’ha esercitato il 27 ottobre, due giorni dopo le elezioni legislative, che hanno dato ai populisti di Diritto e Giustizia, partito del quale lo stesso Duda è esponente, un governo monocolore. Mai successo, dopo il 1989. Tuttavia la mossa del capo dello stato, che è in buona sostanza simbolica, non è frutto di una decisione improvvisa e umorale. A luglio Piotr Naimski, responsabile del programma energetico del partito, si era spinto a reclamare il diritto all’opt-out sul contrasto alle emissioni, preannunciando l’irrigidimento populista.

 

E questo è il lato europeo della contesa. Poi ce n’è uno più propriamente domestico. Si salda alla crisi profonda che il comparto del carbone sta attraversando. Di anno in anno la produttività è scesa, erodendo i profitti fino a trasformarli in buco finanziario. Attualmente Kompania Weglowa, che con i suoi 40 mila dipendenti è la più grossa compagnia europea nel settore, è vicina al crac. Servono 400 milioni di euro per sventarlo.

 

Prima delle elezioni, il governo centrista aveva concepito un piano per creare la necessaria liquidità e cercare ipso facto di trattenere disperatamente le preferenze in uscita. Prevedeva il coinvolgimento di tre grosse aziende pubbliche: PGNiG (gas), PGE (energia) PZU (assicurazioni). Da Bruxelles hanno consigliato di bloccarlo, poiché sarebbe equivalso a un aiuto di stato. Diritto e Giustizia, ora, deve dimostrare ai polacchi che le promesse snocciolate in campagna – tra cui quella di salvare il carbone a tutti i costi – non erano semplici proclami. Da qui la postura battagliera assunta in Europa. Una deroga potrebbe salvare posti di lavoro e schivare l’insidia del conflitto sociale.

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