I boots degli altri in Siria

Contro l'Is, arriverà prima Obama a Raqqa oppure Putin a Palmira?

Daniele Raineri
Truppe siriane a 4 km dalla città gioiello, forze speciali americane con i curdi  verso la capitale dello Stato islamico

Roma. Ora che il piano per una coalizione mondiale unica contro lo Stato islamico che vedesse Russia e America in sintonia guerriera si è sgonfiato, e che il viaggio del presidente francese François Hollande – che due giorni fa è andato al Cremlino a fare da pontiere con il credito morale del massacro di Parigi – ha ottenuto poco, la competizione fra i due schieramenti internazionali in lotta contro i terroristi di al Baghdadi si è fatta più chiara. Tutto accade in Siria. A nord ci sono gli americani, che guidano  una coalizione mista di combattenti curdi e arabi  che stanno scendendo secondo un asse che dal confine turco va verso sud fino alla città di Raqqa, capitale dello Stato islamico.

 

Due giorni fa una fonte curda ha detto all’agenzia Associated Press di avere visto i primi uomini delle forze speciali americane arrivare a Kobane, la città martire sul confine tra Turchia e Siria che a gennaio ha rotto l’assedio dello Stato islamico. Da Kobane, i militari americani raggiungeranno il fronte che dista non più di trenta chilometri da Raqqa. Il loro numero è limitato, meno di cinquanta, ma l’idea è che guideranno con più precisione e più velocità i raid aerei americani. A questo scopo, l’Amministrazione americana ha spostato nella base turca di Incirlik un gruppo di bombardieri, compresi gli A-10 Warhog, che sono aerei specializzati nell’intervenire in aiuto ravvicinato di truppe impegnate a terra. Prima di avanzare verso Raqqa, l’offensiva dovrebbe però – secondo il tam tam unanime delle fonti curde e siriane, e anche secondo la logica – dirigere verso Jarabulus, l’ultimo valico sul confine in mano allo Stato islamico. Ripreso quello, i rifornimenti dell’Is saranno bloccati.

 

Per uno di quei paradossi che nella guerra civile siriana sono la normalità, gli aerei americani partiranno da basi in Turchia per aiutare in combattimento i curdi siriani, che con la loro presenza a ridosso del confine fanno innervosire il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan. La coalizione a guida americana ha una gran copertura aerea, ma una base fragile al suolo: i curdi non possono uscire dalle loro zone d’influenza tradizionale, il Rojava, perché se s’addentrano troppo in territorio arabo sono malvisti: gli arabi – che hanno questa etichetta da ufficio marketing del Pentagono: “Forze arabe democratiche” – non hanno ancora dimostrato di essere affidabili e impermeabili ai soliti problemi che in precedenza hanno fatto fallire alcuni esperimenti simili (per esempio: fuggire e consegnare le armi a gruppi islamisti).

 

[**Video_box_2**]Più a sud, l’altra coalizione è quella a guida russo-iraniana e ha come obiettivo la riconquista di Palmira, la città scrigno di tesori storici nel deserto orientale che lo Stato islamico ha trasformato nel fondale per i propri video di propaganda. Questa coalizione è senz’altro in vantaggio. Secondo le informazioni più recenti, il fronte è ormai a soltanto quattro chilometri dalla città e le fonti civili dall’interno dicono che gli uomini dello Stato islamico sono molti meno rispetto ai giorni della conquista – lo scorso maggio – e che ci sono meno combattenti stranieri, considerati quelli più carichi dal punto di vista ideologico e in alcuni casi i più efficienti sotto il profilo militare (tanto che sono spostati dove c’è più bisogno: forse ora il fronte che difende Raqqa). La conquista di Palmira grazie a un misto di “boots on the ground” forniti dal governo siriano e appoggio aereo fornito dal governo russo sarebbe senz’altro una vittoria potente dal punto di vista simbolico, perché la sua caduta fu un evento catastrofico anche secondo gli standard di orrore puro a cui ci ha assuefatti il conflitto siriano. A Palmira lo Stato islamico assassinò Khaled Asaad, un archeologo ottantaduenne di fama mondiale, e appese il suo corpo a una colonna. Forse Palmira non sarà abbastanza per spingere le due coalizioni a fondersi in una, ma il dibattito in occidente – mettere o no anfibi sulla sabbia? cosa fare? – suona ancora più in ritardo.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)