Gli indici analizzati nei rapporti hanno visto un aumento dell’azione di gruppi legati all’islamismo estremista.

Com'è che ora l'America archivia l'esportazione della libertà religiosa e preferisce tingersi d'arcobaleno

Pasquale Annicchino
Nel 1998 il Congresso degli Stati Uniti approvò l’International Religious Freedom Act (Irfa). L’Amministrazione Clinton, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti d’America, decideva che la protezione e la promozione del diritto di libertà religiosa diventavano parte integrante e prioritaria della politica estera statunitense. Quella dell’Irfa è, in parte, la storia della reazione occidentale alla fine della Guerra fredda.

Nel 1998 il Congresso degli Stati Uniti approvò l’International Religious Freedom Act (Irfa). L’Amministrazione Clinton, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti d’America, decideva che la protezione e la promozione del diritto di libertà religiosa diventavano parte integrante e prioritaria della politica estera statunitense. Quella dell’Irfa è, in parte, la storia della reazione occidentale alla fine della Guerra fredda. E’ la storia di un gruppo di associazioni, di gruppi religiosi, di esponenti politici che avevano attraversato le persecuzioni del regime sovietico e avevano intravisto i pericoli dell’islamismo militante. Inutile negarlo, per molti l’interesse primario era quello di proteggere le comunità cristiane che in molte parti del mondo venivano a trovarsi in condizione di minoranza e, proprio per questo motivo, sempre più spesso oggetto di discriminazioni, quando non di vere e proprie persecuzioni. Non mancava tuttavia a quel gruppo di persone una sana dose d’universalismo e d’idealismo.
La libertà religiosa era sì quella delle minoranze cristiane, ma poteva e doveva essere anche un bene da esportare affinché tutti potessero godere dello straordinario sviluppo che tale libertà, non schiava delle protezioni europee delle chiese di stato, aveva garantito a tutti coloro che erano fuggiti dalle persecuzioni europee. Certo, la narrazione statunitense non considerava quanto gli stessi Stati Uniti avessero testimoniato con la loro storia, quanto le battaglie fra cattolici e protestanti avessero infiammato dibattiti politici e giudiziari o quanto confessioni di minoranze come i mormoni fossero state costrette a emigrare a ovest per sfuggire alle persecuzioni del governo. Tuttavia, in quel 1998, democratici e repubblicani, a grande maggioranza, decisero che gli Stati Uniti si dovessero identificare con il diritto di libertà religiosa e la libertà religiosa dovesse identificarsi con l’esperienza americana. Il dipartimento di stato creò un ufficio speciale per la libertà religiosa, venne istituita la U. S. Commission on International Religious Freedom, una commissione indipendente in grado di monitorare lo stato della libertà religiosa nel mondo e di effettuare visite mirate nei paesi particolarmente a rischio. Qualche anno dopo veniva nominato anche un ambasciatore speciale per la libertà religiosa. Era stata messa in piedi una vera e propria macchina burocratica con l’obiettivo specifico di promuovere il diritto di libertà religiosa. Come spesso succede nelle burocrazie, alle migliori intenzioni non necessariamente seguirono i risultati.

 

Così Thomas Farr, già direttore dell’Ufficio per la libertà religiosa al dipartimento di stato, in un volume pubblicato da Oxford University Press nel 2008 (“World of Faith and Freedom: Why International Religious Liberty is Vital to American National Security”), evidenziava come la macchina burocratica avesse frenato ogni iniziativa e come i funzionari del dipartimento di stato percepissero estranea alla loro missione l’azione per il rispetto del diritto di libertà religiosa. Farr parla di un “blocco cognitivo” di un’élite ministeriale, spesso liberal e con affiliazione religiosa debole, che ha difficoltà a comprendere la rilevanza di tale diritto per molte persone nel mondo.  Se pensi al mondo solo come rapporti di forza e non puoi comprendere la rilevanza della fede, difficilmente potrai impegnarti in un’azione a difesa della libertà religiosa.

 

Infatti dal 1998 a oggi la situazione della libertà religiosa nel mondo è sicuramente peggiorata. Ogni anno i rapporti del Pew Forum evidenziano l’aumento delle restrizioni e delle ostilità sociali nei confronti dei fedeli di quasi tutte le religioni in molte parti del mondo. Negli ultimi anni gli indici analizzati nei rapporti hanno visto uno spaventoso aumento nei paesi in cui vi è stata l’azione di gruppi legati all’islamismo estremista. Mentre alcuni paesi occidentali, sotto la regia della U. S. Commission on International Religious Freedom, provavano a creare iniziative per reagire alle persecuzioni, il dibattito tra gli esperti è proseguito giungendo a esiti immaginabili nel 1998.

 

[**Video_box_2**]Le polemiche, del resto, non sono mai mancate. I ben informati raccontano di quando Lady Ashton, allora Alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza dell’Unione europea, rifiutò di far approvare dal Consiglio europeo un testo che faceva riferimento esplicito alle sole minoranze cristiane senza dar conto delle persecuzioni a danno di altre minoranze religiose. Ma se nel 1998 gli Stati Uniti registravano una sostanziale unanimità rispetto all’atteggiamento da assumere nei confronti delle persecuzioni, oggi a essere messa in discussione è la stessa esigenza di un’azione specifica a tutela del diritto di libertà religiosa. Alcuni autori sottolineano come sia necessario andare oltre. “Beyond Religious Freedom” è infatti il titolo di un recente volume pubblicato da Princeton University Press di cui è autrice Elizabeth Shakman Hurd, professoressa presso la prestigiosa Northwestern University di Chicago. Per Shakman Hurd, e per coloro che aderiscono alle sue tesi, si potrebbe fare a meno della stessa categoria di religione (e quindi del concetto di libertà religiosa) in quanto nozione profondamente influenzata dall’esperienza occidentale e che non aiuta a comprendere cosa avviene in paesi in cui religione, politica e cultura si mescolano in un indecifrabile e inscindibile melting pot politico. L’Amministrazione Obama sembra aver fatto sue alcune di queste tesi. Dopo una lunga battaglia, sono stati infatti ridotti i fondi per la U. S. Commission on International Religious Freedom. La rilevanza del diritto di libertà religiosa nella sua politica estera si è eclissata soprattutto a partire dal 2011 quando, in un famoso discorso al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, l’allora segretario di stato Hillary Clinton rivendicò la centralità dei diritti per le persone lesbiche, gay, omosessuali e transgender.

 

Sono la promozione dell’individualismo e del principio di autonomia a guidare ora l’azione di promozione dei diritti umani nel contesto della politica estera statunitense. La politicizzazione, e il menù à la carte, non risparmiano comunque neanche questa azione. Si fa spesso la voce grossa con i piccoli stati mentre con gli alleati, per preservare gli interessi commerciali, si chiude spesso un occhio. Quello che sembra essere definitivamente cambiato è il perno della proiezione statunitense nella sua narrazione sui diritti nel mondo. La Casa Bianca si illumina con i colori dell’arcobaleno nel giorno della sentenza della Corte Suprema che riconosce il diritto al matrimonio omosessuale. Declina l’azione sulla libertà religiosa, diritto che fa capo a gruppi e individui, decolla invece sempre di più una concezione legata all’individualismo e al principio di autonomia personale della quale i diritti delle persone lesbiche, gay, omosessuali e transgender sono forse l’esempio più lampante.
Siamo nel mezzo di quello che Thomas Kuhn avrebbe definito un cambio di paradigma. A giugno di quest’anno la rivista Foreign Policy si chiedeva “Il matrimonio gay ci salverà dall’Isis?”. L’azione sulla libertà religiosa sembra non esserci riuscita. Non resta che attendere qualche tempo per provare a rispondere alla domanda.

 

Pasquale Annicchino è autore di “Esportare la Libertà religiosa. Il modello americano nell’arena globale” (Il Mulino)