Poliziotti armati nelle strade di parigi (LaPresse)

"Atto di guerra". La frase di Hollande serve a far scattare l'articolo 5 del trattato Nato

Mario Sechi
Come dopo l'11 settembre, adesso può mettersi in moto il patto di solidarietà e l'azione militare tra stati del Patto atlantico. Il nuovo scenario in Siria, Iraq e l'ipotesi di un impegno senza furberie da parte dell'Italia.

“Atto di guerra”. Le parole del Presidente Hollande sono intrise di rabbia, scivolano sul sangue delle vittime di Parigi, evaporano come le lacrime di chi ha il dolore che martella il cervello. “Atto di guerra” è una frase non casuale, non scritta di getto, non un colpo di penna sul comunicato del Presidente, ma una formula che all’Eliseo hanno pesato e messo nero su bianco per uno scopo ben preciso. Quale? Aprire la possibilità di chiedere l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico. Cosa dice? Eccolo: “Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale. Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali”.

 

L’articolo non ha bisogno di grandi spiegazioni: un paese sotto attacco deve essere immediatamente aiutato a difendersi dagli altri membri del patto. E’ il passaggio fondamentale del Trattato di Washington – un gioiello di sintesi politica e efficacia giuridica -  prontamente dimenticato nel dopoguerra. E’ il contesto che fa il testo. In fondo, la Nato aveva vinto la Guerra Fredda senza sparare un colpo, il Muro era crollato e Francis Fukuyama poteva scrivere che sì, era giunta La fine della Storia. Ma l’undici settembre del 2001 le lancette della Storia si rimettono in moto, un attacco multiplo e coordinato di terroristi ispirati da Osama Bin Laden distrugge le Torri Gemelle, trafigge il cuore del Pentagono, uccide tremila uomini e donne. La Storia diventa la Grande Mietitrice, la morte. E quell’articolo, scritto da uomini che avevano visto l’orrore della guerra, viene tirato fuori dal cassetto. Il giorno successivo all’attacco di al Qaeda nel cuore di New York, il Consiglio Atlantico si riunisce per esaminare il caso e il 2 ottobre, dopo i colloqui tra gli Stati Uniti e gli alleati, viene deciso che ci sono tutte le condizioni per far scattare il patto di solidarietà e l’azione militare. Comincia così l’invasione dell’Afghanistan.

 

Quattordici anni dopo, la carneficina di Parigi. “Atto di guerra” dice Hollande e sa che con questa frase amplia le sue – le nostre – possibilità di reazione. Non solo, il presidente francese individua subito, senza aspettare alcuna rivendicazione (arriverà dopo), il nemico: lo Stato Islamico, Isis. E’ il sigillo formale su un dato di fatto: la Francia è in guerra e i suoi alleati saranno chiamati a dare una risposta corale. Quale risposta? Le urla lancinanti del teatro Bataclan echeggiano ancora, sono un sinistro memento, quello che al Pentagono chiamano clear and present danger, la minaccia che chiede una reazione immediata. Politica e militari stanno già squadernando sul tavolo le varie opzioni, il format delle possibili coalizioni. Serghei Lavrov, ministro degli Esteri della Russia, raffinatissimo tessitore della diplomazia del Cremlino, è stato il primo a lanciare l’idea di mettere sul campo una vera e propria coalizione: “E’ ora di fare insieme molto di più”. La Siria è il teatro di guerra. Per ora non c’è risposta, ma a Washington sanno che un’operazione congiunta avrebbe più chance e la Russia è un giocatore di scacchi temibile, ma necessario. Lavrov si è subito inserito nel gioco aperto il venerdì 13. E avrà una risposta. Ma prima l’Unione Europea deve fissare i punti dell’agenda in un vertice dei capi di Stato europei, anticipare alcune mosse che la Nato stava preparando sull’area del Mediterraneo (più sorveglianza, più droni e, a questo punto, più missili) e affrontare la vera domanda: che si fa ora sul santuario del terrore di Isis? Assad? Viene dopo. E in ogni caso anche i russi hanno i loro seri problemi – l’aereo di linea esploso sul cielo del Sinai è un bagliore accecante per il Cremlino – e Putin sta giocando un risiko ben più grande del destino del regime di Assad. Siamo già oltre.

 

“Atto di guerra”. L’articolo 5 del Trattato di Washington apre la porta all’azione militare coordinata, la Francia ha il tasto pronto, ma non la forza per agire da sola e manca ancora la risposta – arriverà – alla domanda chiave: una volta varcata quella soglia dove si va? Il Pentagono ha intensificato la sua azione con i raid aerei dopo l’ingresso della Russia in Siria, ma l’efficacia contro le truppe in movimento di Isis è contenuta. Uccidere Jihadi John, lo sgozzatore inglese, con un missile è efficace sul piano della comunicazione, ma non cambia nulla nell’assetto strategico di Isis, nella sua capacità di essere mobile, di colpire a freddo, di minacciare, di uccidere innocenti e perseguire il suo disegno: annullare i confini tra Iraq e Siria, stabilire la legge spietata del Califfato su una terra di mezzo che l’Occidente non riesce a riconquistare. Fino a ieri nessuno ha avuto il coraggio di inviare truppe di terra, affrontare il tema incandescente: chi va a morire? Ma non c’era il sangue di Parigi tra i piani militari studiati a tavolino, non c’erano le vite spezzate e la paura, la visione della resa di fronte ai kamikaze, ai proiettili, alle granate, alle fredde esecuzioni di massa in un teatro nel centro di Parigi. Non c’era l’assassinio della ragione, dell’anima. Ora c’è e tutto cambia.

 

[**Video_box_2**]“Atto di guerra”. E’ da qui che parte un’altra storia. E riguarda anche l’Italia e i suoi contorcimenti, le sue solidarietà intrise di sentimenti e le sue reticenze piene di timori. Comprensibile, ma fino a un certo punto della storia, poi si gira pagina e si apre un altro capitolo. Settimane fa, avevamo un piano per armare i Tornado e dare una mano all’Iraq, poi è prontamente sparito e si è cominciato a disquisire di articolo 11 della Costituzione. Dopo Parigi quel piano riemergerà? E sarà sufficiente il giorno in cui all’Eliseo premeranno il tasto rosso? Se Hollande chiede aiuto, difficile sottrarsi all’obbligo, alla solidarietà. Il Wall Street Journal ha già anticipato che il generale Philip Breedlove, comandante dell’Alleanza e capo del comando americano in Europa, ha già parlato con il generale Pierre de Villliers, capo delle forze armate francesi. La sabbia nella clessidra ha cominciato a scorrere con rapidità. Per ora Parigi non ha chiesto nessun vertice formale dell’Alleanza, siamo alla fase “scambio di informazioni”. C’è anche l’Italia in questa fase di consultazioni e a Roma, quando arriverà il momento, daranno il via libera. La Nato non è un club dove si fanno mille parti in commedia. I paesi e i loro leader possono prendere tempo, dilatare, diluire, poi arriva la realtà. Ha il volto degli assassini della notte del venerdì 13. E se quello di Parigi – come ha detto Hollande - è stato “un atto di guerra”, alla fine avrà una sola risposta: la guerra.