Il premier britannico David Cameron (foto LaPresse)

Brexit? Dentro all'Ue si conta di più

Cristina Marconi
A Cameron serve almeno “l’apparenza di un successo”, dice Sir Wall

Londra. E’ uno dei grandi fatti della vita: non si gioca a calcio stando fuori dal campo. Una verità con cui gli elettori britannici, imbambolati davanti alla perdita di rilievo del loro paese sul piano internazionale, dovranno scendere a patti. E se lo faranno sarà anche grazie alla scaltrezza con cui l’eurotiepido militante David Cameron sta affrontando il compito che si è assegnato: portare a casa un successo, o almeno “l’apparenza di un successo”, nei negoziati con Bruxelles, in modo da tenere Londra dentro l’Ue dopo il referendum. Sir Stephen Wall si occupa di Unione europea da una vita, è stato per anni a capo della diplomazia britannica a Bruxelles prima di essere consigliere di Tony Blair in materia e, sebbene sia uno dei pochi veri europeisti del paese, spiega al Foglio come proprio l’approccio non ideologico di Cameron potrebbe rivelarsi quello giusto. “Ha scoperto quello che tutti i primi ministri scoprono: Bruxelles è l’unico tavolo al quale possono sedersi, gli altri contano di meno. Ma se la immagina una telefonata a Parigi o a Berlino dopo essere usciti dall’Ue?”, spiega Sir Wall, che sta lavorando a una monumentale storia ufficiale del rapporto tra il Regno Unito e l’Ue.

 

“E’ dal discorso a Bloomberg del 23 gennaio del 2013 che Cameron ha messo in chiaro cosa pensa, ossia che vuole restare”, aggiunge l’alto diplomatico per dissipare ogni accusa di impegno tardivo e svogliato da parte dell’inquilino di Downing Street. Il quale fa bene ad avere fretta per il referendum – giugno del 2016 è perfetto, ottobre è il limite massimo – visto che “più si va avanti più si accumulano temi sui quali votare”. Già a quello dell’economia si è sommata l’immigrazione, sulla quale “Cameron sembra aver fatto qualcosa che è apparso efficace” all’opinione pubblica, spiega Wall pesando le parole. Per il primo ministro, a differenza di quanto avvenne per Harold Wilson nel 1975, sarà difficile “presentarsi con qualcosa che non sia un successo”, perché andrà incontro a un esame molto più approfondito dei risultati rispetto al predecessore laburista, che se la cavò con una deroga sul commercio di prodotti caseari neozelandesi e poco più. Le richieste di Cameron non sono “inabbordabili”, lui si sta muovendo “in maniera molto professionale, soprattutto all’interno del suo partito” e “l’apparenza del successo”, purché non troppo esile, basterà a convincere gli elettori. Che però sono per lo più indifferenti e rischiano di non andare a votare: “Quelli veramente motivati in questo referendum non sono poi molti”, ma non dimentichiamoci che l’Ukip, nonostante il suo scarno seggio a Westminster, ha smosso il 12 per cento e passa dei voti alle elezioni. Sir Wall non si scompone neppure davanti al fatto che da sinistra le voci a favore dell’Ue siano ancora più flebili che a destra. “Il Labour ha i suoi bei problemi, ma prima o poi emergeranno forme di europeismo anche lì, purché Cameron non prenda di mira le questioni sociali”, rassicura. “Mi aspetterei qualche sorpresa dai laburisti”, anche perché nella campagna referendaria non si tratta di affermare valori europei che ai britannici non dicono niente, bensì di far prevalere uno spirito costruttivo e la verità di cui sopra – “se vuoi avere influenza devi stare all’interno, non all’esterno”.

 

[**Video_box_2**]Perdere tempo dietro alla questione europea rischia di accelerare quella riduzione del ruolo internazionale del paese iniziata dopo la Seconda guerra mondiale. Tanto più che “molto di quello che ci faceva sentire potenti negli ultimi decenni erano solo le vestigia dell’impero”, sottolinea Wall: illanguidirsi su quello che è stato e pensare che il paese abbia qualcosa da guadagnare a ballare da solo è una pia illusione. Lo stesso hanno fatto presente altri diplomatici in un report di qualche giorno fa, spiegando che Londra è “in disparte in Siria, inefficace in Ucraina, svogliata in Europa e ostile con i rifugiati”. Elementi che, sommati, significano: irrilevante. Wall, il più diplomatico di tutti, non è d’accordo: “Il paese non è ‘unimportant’, ma per influenzare il comportamento del mondo bisogna essere in tanti”.

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