Il presidente americano Barack Obama incontra alcuni soldati lo scorso 8 ottobre durante un incontro al Pentagono sullo Stato islamico (foto LaPresse)

Engagement con juicio

Le soluzioni “creative” di Obama per combattere Is contenendo i rischi

Il Pentagono parla di “azioni sul terreno” mentre il presidente valuta l’invio (limitato) di truppe in Siria

New York. Davanti alla commissione per le Forze armate del Senato il segretario della Difesa, Ash Carter, ha evocato ieri la possibilità di “azioni dirette sul terreno” per contrastare lo Stato islamico (Is). “Non ci tratterremo dal sostenere partner in occasionali attacchi contro Is, o dal condurre missioni direttamente, sia per quanto riguarda bombardamenti dall’alto o azioni dirette sul terreno”, ha detto Carter, spiegando la strategia delle tre “r”: le prime due stanno per le città di Raqqa e Ramadi, l’ultima per i raid aerei. Le parole di Carter, che ha testimoniato assieme al capo delle Forze armate, Joseph Dunford, non sono il preludio di una rivoluzione nel piano strategico di Obama, presidente poco incline alle conversioni repentine al decisionismo (ieri il senatore John McCain l’ha detto chiaro: “Se esiste il contrario di un comandante in capo, eccolo qui”), ma forniscono indizi sui sommovimenti interni all’Amministrazione quando si parla di Stato islamico. Segno che di fronte al ginepraio siriano perfino un devoto del cabotaggio e delle manovre “da dietro” è in cerca di nuove idee strategiche. Nella stessa direzione va anche la notizia riportata ieri mattina dal Washington Post: il presidente, riferisce il quotidiano, sta vagliando alcune ipotesi militari che prevedono l’invio di truppe americane in Siria e lo spostamento di soldati sul fronte iracheno. Obama, dicono alcuni funzionari della Casa Bianca, ha chiesto al team della Sicurezza di presentare diversi scenari strategici per combattere in modo più efficace lo Stato islamico, quando ormai è chiaro che la guerra non si vince con la sola potenza aerea e gli unici “boots on the ground” sono quelli russi e iraniani, al fianco dell’esercito di Bashar el Assad.

 

Dunford ieri ha detto che “l’equilibrio delle forze si è spostato in favore di Assad”, cosa che mette in chiaro chi sta avendo la meglio sul campo, almeno secondo l’esercito americano. Da qui l’opportunità di un cambio di direzione per sostenere “attacchi occasionali dei partner” contro il Califfato o di procedere direttamente. Una delle ragioni per cui Obama ha nominato Carter alla guida del Pentagono è la sua capacità di trovare soluzioni militari “creative” alle crisi in corso, dove l’aggettivo indica soluzioni alternative a quelle che negli anni i ranghi militari hanno messo sulla scrivania del presidente: l’invio di truppe di terra da una parte, l’antiterrorismo chirurgico, meglio se con i droni, dall’altra. Il Washington Post dice che tutte le alternative, comprese quelle più aggressive, inviate alla Casa Bianca prevedono un impiego limitato di forze speciali sul campo, mentre l’ipotesi di istituire no fly zone e zone cuscinetto sono state scartate dalla maggioranza dei consiglieri di Obama, compreso il segretario di stato, John Kerry, che nel dibattito interno sulla Siria è sempre stato con la fazione interventista.

 

Ieri però Carter ha precisato che un piano strategico basato sulla no fly zone esiste, “almeno sulla carta”, e “non posso escludere che sarà messo in atto in futuro”, anche se ha lasciato intendere che politicamente è impraticabile. Secondo il quotidiano di Washington, Obama potrebbe decidere questa settimana se trasformare in policy una delle ipotesi militari da lui sollecitate oppure lasciare tutto così com’è, sapendo che in ogni caso non si tratterà di un ribaltamento del ruolo dell’America nel conflitto, ma di un aggiustamento in corsa. Politicamente significativo, ma pur sempre un aggiustamento, una forma di engagement edulcorata dalle necessità politiche e dalle condizioni sul campo.

 

[**Video_box_2**]La logica dell’egemonia in tono minore, della presenza attiva ma ridotta ai minimi termini, è quella che si è vista ieri nel mar Cinese, dove il cacciatorpediniere americano USS Lassen si è avvicinato alle isole artificiali costruite dalla Cina, e che Washington non riconosce come territorio cinese. Per Pechino è “una minaccia alla sovranità cinese”, mentre per la Difesa americana è – formalmente – soltanto una regolare navigazione in acque internazionali. Dopo due anni dall’inizio dei lavori per costruire dal nulla le isole, con l’intento poi di militarizzarle, l’America obamiana del “pivot asiatico” manda un segnale a una Cina che s’agita e s’espande in un quadrante geopolitico rovente. Engagement, con juicio.