Tony Blair e George W. Bush durante una conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca nel dicembre del 2006 (foto LaPresse)

La guerra giusta

Redazione

L'ex primo ministro inglese Tony Blair non si scusa per aver cacciato Saddam. Bene. Ma liscia il pelo al pensiero mainstream quando lega lo Stato islamico alla guerra in Iraq del 2003. Che invece rimane una guerra giusta, anche se non onusiana

Tony Blair non si è scusato per la guerra in Iraq. Quando ti scusi, sei disposto almeno ad ammettere che, tornando indietro, non faresti più quello che hai fatto, e chiedi ai tuoi interlocutori di crederti. L’ex premier britannico ha ripetuto quel che aveva già detto in passato, cioè che ci sono stati molti errori, che l’intelligence aveva fornito dossier rivelatisi fallaci – le armi di distruzione di massa non c’erano – e che la strategia occidentale era piena di domande senza risposte e questo ha reso la guerra più violenta, prolungandola e rendendo il processo di nation building più incoerente e meno efficace. Ma Saddam Hussein aveva dichiarato guerra prima di tutto al suo popolo, aveva fomentato il terrorismo, aveva bluffato lui stesso, facendo credere al mondo che le armi di distruzione di massa non soltanto esistevano, ma sarebbero state utilizzate. “Mi è difficile chiedere scusa per aver destituito Saddam”, ha detto Blair, ripetendo quel che aveva detto già in passato, cioè che quella in Iraq era una guerra giusta. Ma soltanto il fatto che l’ex premier guerrafondaio abbia affrontato l’argomento ha fatto giubilare chi ha sempre sostenuto che l’invasione irachena era una prova di forza illegale e imperialista, causa di tutti i mali odierni.

 

Tony Blair è uno dei politici più odiati della terra, a causa di quella guerra. Le sue scuse da un lato sono state strumentalizzate – lo dice anche lui che la questione irachena era una follia! – e dall’altro sono state rifiutate: facile adesso ripensarci, tuittavano ieri i suoi odiatori, ora che sta per uscire il report d’inchiesta che dimostrerà come tu, Blair, hai voluto fortemente fare quella guerra, e l’avevi deciso già con il tuo compare Bush, e l’avresti fatta comunque. Ogni volta che Blair parla, la rete si riempie di sue immagini sanguinanti e sanguinarie: nell’opinione pubblica è un criminale di guerra tra i peggiori mai visti. Accogliere, travisando, le sue parole significa ribadire che l’intervento militare contro i dittatori è da evitare: Barack Obama si riferisce sempre “all’esempio dell’Iraq” come a quello che va evitato, e così fanno tutti in Europa. Blair, che a differenza del suo compare Bush è un uomo mondano che non vuole scomparire in un ranch a dipingere i ritratti dei suoi amici, rivendica il fatto che la caduta di Saddam sia stata necessaria e giusta.

 

[**Video_box_2**]Poi però Blair concede troppo al mainstream quando – nell'analisi delle conseguenze della guerra in Iraq – dice che lo Stato islamico, la sua crescita forsennata e ferocissima, non sono estranei alla guerra in Iraq. Esattamente come sostengono coloro che vogliono ribaltare la storia irachena degli ultimi vent’anni: se ci fosse Saddam, non ci sarebbe lo Stato islamico. Con i "se" è difficile ragionare, quel che sappiamo oggi è che la presenza di un dittatore che nessuno ha voluto rimuovere quando ce n’era la possibilità – il siriano Bashar el Assad – non ferma nemmeno lì l’avanzata del jihadismo, anzi. Quel che sappiamo è che la mancanza di intervento, l’assenza di una leadership o anche solo di una presenza occidentale sul campo – dall’Iraq ci siamo ritirati più per ispirazioni ideologiche che per motivazioni concrete – crea vuoti di potere che vengono irrimediabilmente riempiti da forze nemiche. L’analisi di Blair, le sue non scuse e la sua analisi fuorviante sullo Stato islamico, a questo servono: a ricordarci che la strategia “tutto-ma-non-come-Blair-e-Bush-in-Iraq” ci costringerà a misure di emergenza militari ancora meno appetibili di quelle che stiamo valutando oggi.

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