Paradossi legalitari

L'intervento di Putin in Siria è “giuridicamente” difendibile. E adesso?

Marco Valerio Lo Prete
Da Renzi a Obama. Come e perché la legalità internazionale è diventata un feticcio per l’occidente riluttante. Secondo un’opinione piuttosto condivisa da alcuni giuristi internazionali, gli unici interventi in Siria fondati su solidi “presupposti giuridici” (per citare Renzi), sono quelli di Staffan de Mistura e di Putin.

Berlino. La tanto agognata “legalità internazionale” è all’opera in Siria, per cercare di porre fine alla guerra civile che ha fatto finora 250 mila morti e ha messo in fuga dal paese milioni di persone. La legalità internazionale ha oggi il volto anonimo dell’inviato dell’Onu Staffan de Mistura, e quello più bellicoso del presidente russo Vladimir Putin, e i leader occidentali scoprono (lentamente) che non è proprio un bel vedere. Andiamo per ordine. Ancora ieri il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha detto in Parlamento che “commette un errore chi oggi immagina, dimenticando gli ultimi sei mesi, di appaltare totalmente la questione della Siria alla Russia e ai suoi alleati”. Lo stesso Renzi che pochi giorni fa all’Onu aveva detto: “L’Italia farà la sua parte senza intervenire in questo contesto in Siria perché mancano anche i presupposti giuridici al di là delle valutazioni politiche”. E quindi i presupposti giuridici, in politica estera, sembrerebbero venire prima delle valutazioni politiche. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, sul punto la pensa quasi allo stesso modo. La “potenza gentile” europea, in questa fase storica, sembra decisa a occuparsi dei focolai di guerra e instabilità alle sue porte soltanto a condizione che esista una patina di legittimazione onusiana. Che non arriva mai, o al massimo si materializza quando è già troppo tardi. E’ diventata una fissazione, quella della “legalità internazionale”, rafforzata dal nuovo corso obamiano che ritiene addirittura di poter imbrigliare – a suon di commi di diritto internazionale – la Rivoluzione islamica costituzionalizzata dal 1979 in Iran. Sulla Libia, a qualche chilometro dalle coste siciliane, stessa solfa, da mesi, mentre una guerra fratricida imperversa e alimenta un flusso senza precedenti di disperati che attraversano il mar Mediteranneo. En attendant la legittimazione internazionale di un intervento occidentale, ovvio.

 

In attesa di una risoluzione quale che sia, superata una linea rossa dopo l’altra, il tempo però fugge. A cinque anni dall’inizio delle turbolenze siriane, l’esperto inglese d’intelligence Alastair Crooke ha chiesto ad alcuni giuristi internazionali di valutare lo stato dell’arte senza esprimersi sulla “giustezza” o meno dei conflitti in corso, ma sulla sola base dei manuali di diritto e della consuetudine giuridica. E qui arriva la sorpresa. Secondo un’opinione piuttosto condivisa, gli unici interventi in Siria fondati su solidi “presupposti giuridici” (per citare Renzi), sono quelli di Staffan de Mistura e di Putin. Del primo, tessitore su mandato Onu di un possibile e mai pervenuto dialogo tra le parti, nessuno a dire il vero si cura più. I riposizionamenti di forze navali e i bombardamenti aerei di Putin, invece, sono i soli a non violare l’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui “i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato”. Perché la stessa Carta prevede tre eccezioni a tale regola: si può intervenire con la violenza in un altro stato membro quando ci sia l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza (articoli 39 e 42); quando si tratti di difesa individuale o collettiva di fronte a un attacco contro uno stato membro (articolo 51); infine, così vuole la consuetudine giuridica affermatasi nei decenni, quando uno Stato approvi direttamente operazioni militari straniere nei suoi confini. Mosca è intervenuta in Siria su richiesta del governo di Damasco, quello riconosciuto con tanto di seggio all’Onu, e perciò si muove con tutti i crismi della legalità internazionale. Lo stesso si può dire dell’intervento dell’America e degli alleati in Iraq, perché il governo di Baghdad ha chiesto ufficialmente aiuto contro lo Stato islamico.

 

E’ fuori dalla legalità, invece, l’intervento dal cielo della coalizione a guida americana in Siria: perché non ha il consenso ufficiale di Damasco; perché scavalca l’esercito siriano che combatte contro l’Isis sul terreno; perché infine l’autodifesa dell’articolo 51 non può essere invocata di fronte alle azioni di un soggetto non-statuale come l’Isis. E così sarebbe “apertamente” in violazione del diritto internazionale anche l’istituzione della no-fly zone turco-americana ai confini con la Siria. A sostegno di tutto ciò, esistono svariati precedenti e sentenze.

 

[**Video_box_2**]L’intervento russo è legale, proprio come ha detto Putin all’Onu insomma, eppure ai leader occidentali legittimamente non convince del tutto. Come la mettiamo, dunque? Davvero i “presupposti giuridici” devono prevalere sulle “valutazioni politiche” del mondo libero, sull’interesse nazionale dei paesi europei o sul loro eventuale idealismo? Ai legulei si dovrebbe rispondere che le dittature sono cadute, ancora di recente – si pensi a Milosevic dopo il Kosovo, ai talebani in Afghanistan, a Saddam in Iraq – senza imprimatur dell’Onu. E che invece perfino i legalissimi Caschi blu non hanno mancato di macchiare la loro reputazione in vario modo. Tuttavia, per ragionare in questi termini, il Pianeta di Venere dovrebbe innanzitutto abbandonare la nuova pericolosa rielaborazione del brocardo “fiat iustitia et pereat mundus”, un feticcio chiamato “legalità internazionale” dietro il quale si celano l’inazione e il “leading from behind” come precise scelte politiche con annesse conseguenze.

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