Perché ora il Venezuela è costretto a importare petrolio da Africa e Russia

Maurizio Stefanini

I problemi dell'azienda di stato sono legati all'utilizzo di Chávez e Maduro della Pdvsa come un salvadanaio da cui attingere per mantenere il consenso in casa, trascurando manutenzione e ricerca.

Quando il 26 ottobre del 2014 arrivò la prima petroliera algerina con a bordo due milioni di barili di greggio, il governo del Venezuela cercò di passare sotto silenzio il fatto: per la prima volta nella storia il paese stava importando petrolio. Il tentativo di insabbiamento di Maduro non riuscì: la stampa internazionale infatti aveva già diffuso la notizia grazie anche all’opposizione che dichiarò il “giorno della vergogna nazionale”. Il governo prima negò, la Pdvsa, la società petrolifera di Stato, per un po’ si rifugiiò dietro al “no comment”, poi ammise. A un anno di distanza, ormai l’importazione di idrocarburi non solo non è più negata, ma viene quasi celebrata come un esempio della cooperazione tra la Repubblica bolivariana e i suoi alleati.

 

Il petrolio straniero in questo anno è aumentato in quantità e il governo venezuelano ha aumentato le partnership internazionali con i cosiddetti paesi amici. Ieri, ad esempio, la Pdvsa ha accolto al terminale di Curaçao circa 630mila barili di greggio russo degli Urali, partito il 6 settembre sulla petroliera HS Carmen. Si tratta di una seconda fornitura, un surplus rispetto ai 2,5 milioni di barili al mese di petroli leggeri e medi e ai 3 milioni di barili di nafta pesante che ogni mese sono forniti dalla multinazionale svizzero-olandese Vitol e dall’altra multinazionale olandese Trafigura. Alla Pdvsa infatti servono almeno 175mila barili al giorno, e dopo aver comprato vari carichi di petrolio degli Urali al mercato aperto, ha firmato un ulteriore contratto di somministrazione anche con la Rosneft, compagnia petrolifera di proprietà in maggioranza del governo russo: un anno di durata, estendibile per altri tre anni. Non basta. Da quel primo carico dell’ottobre 2014 fino a febbraio il Venezuela ha anche acquistato 4 milioni di barili di greggio algerino dalla Saharan Blend, e da luglio ha iniziato a comprare anche dalla Shell: 6 milioni di barili, di provenienza nigeriana e angolana. L’ultimo carico africano è rappresentato da 820.000 barili di Bonny Light nigeriano, che la petroliera Seavoyager porterà a Curaçao venerdì. E a ottobre dovrebbe arrivare un carico di greggio Cabinda dall’Angola.

 

Ma che ci fa con tutto questo petrolio un Paese dove tuttora la benzina costa meno dell’acqua minerale? Il Venezuela resta ancora un grande produttore di greggio, anche se tra il 2013 e il 2014 la produzione è calata dai 2,89 milioni di barili al giorno ai 2,78 attuali. Anche l’export è diminuito da 2,42 a 2,35 milioni di barili al giorno.

 

[**Video_box_2**]Le difficoltà venezuelane sono di carattere organizzativo a causa della produzione non omogenea, in quanto divisa in due comportamenti ben distinti: da una parte il petrolio leggero, che si estrae a ovest, attorno a Maracaibo, dall’altra il petrolio pesante del Sud, estratto nella cosiddetta Faja del Orinoco, che è più abbondante anche perché il suo sfruttamento è iniziato da poco, ma anche più difficile da raffinare. Organizzazione a parte le problematiche vertono anche sulla gestione dell’azienda di stato, da sempre, utilizzata da Chávez e Maduro come un salvadanaio da cui attingere per mantenere il consenso in casa e fuori, trascurando in questo la manutenzione degli impianti e la ricerca. Per questo si è reso necessario il ricorso a idrocarburi esteri. Quando è stato importato il primo carico dall’Algeria infatti la produzione dell’Ovest era già precipitata da 1,3 milioni di barili al giorno a meno di 600mila, e se i nuovi giacimenti del Sud hanno permesso in parte di compensare questa perdita, si è però reso necessario il ricorso a petroli leggeri per la raffinazione di quello pesante lì estratto.

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