Il tempio di Bal di Palmira, distrutto dallo Stato islamico

L'indignazione e la guerra

Paola Peduzzi
E’ stato distrutto un altro tempio a Palmira, i siriani fuggono in massa dal terrore jihadista. Ohibò, è uno scontro di civiltà! Ma se dici che è necessario intervenire militarmente, gli indignati guardano altrove

Milano. Quando le immagini satellitari pubblicate dall’Onu hanno confermato che anche il tempio di Baal, a Palmira, è stato raso al suolo dallo Stato islamico, si è rialzato il coro: questo scempio deve essere fermato, lo Stato islamico sta distruggendo la cultura mediorientale – e greca e romana – una colonna e un altare alla volta, e non è tollerabile. Palmira si sta trasformando da patrimonio dell’umanità in un palco della ferocia islamista del Califfato: qui dove si celebrava un festival storico-artistico annuale ormai da decenni ora ci sono le esecuzioni, come gli stadi a Kabul ai tempi dei talebani. I trofei di guerra vengono poi esposti anche fuori dagli ex siti archeologici, come è accaduto a Khaled al Asaad, ottantatreenne custode di Palmira, ucciso e appeso a un semaforo. La furia della distruzione è sconvolgente, gli esperti segnalano, con mappe agghiaccianti, tutto quel che la nostra cultura millenaria sta perdendo, giorno dopo giorno, sostituita dal progetto mortifero del Califfato.

 

Il livello di indignazione è altissimo, così come lo è quando si parla dei migranti, le migliaia di siriani che non stanno con lo Stato islamico e non stanno con Damasco, che scappano e si rifugiano dove possono, soprattutto nel vicino Libano prossimo all’implosione, e che poi tentano di arrivare in Europa, rischiando tutto, ma tanto la vita là non è comunque salva. “Dobbiamo curare la crisi migratoria dalle sue origini” è il ritornello che tutti ripetono, giustamente, cercando di inserirvi, a seconda del contesto, vari livelli di umanitarismo. Sì, è uno scontro di civiltà, per quanto nessuno lo urla, perché l’espressione ricorda un passato recente che la coscienza occidentale vuole rimuovere. E negli scontri di civiltà in cui una forza combatte senza rispetto della vita, nemmeno della sua, di civiltà, l’unica risposta è una forza altrettanto grande, o anzi “incomparabilmente superiore”. Ma di fronte a questa alternativa banale e cruda, cioè che alla guerra rispondi con la guerra, l’indignazione evapora, l’umanitarismo annaspa, e chi ripete che bisogna fermare lo scempio dei templi diventa improvvisamente non interventista.

 

Da anni si cerca di capire che cosa si può fare per combattere lo Stato islamico, ed è quasi imbarazzante andare a leggere i paper pubblicati dai centri studi, dagli esperti, dai diplomatici, in tutto questo tempo, perché sono sempre validi, eppure non applicati. Ci siamo imbattuti in uno di questi, che risale a qualche mese dopo l’inizio delle operazioni americane in Iraq e Siria – è del Council on Foreign Relations, firmato da Max Boot – e ribadisce quel che ormai è noto: bisogna aumentare le forze dislocate, lavorare con le fazioni moderate addestrandole, eliminare il divieto autoimposto ai “boots on the ground”, inviare la forza speciale più speciale che c’è, il Jsoc, non limitarsi a “degradare” lo Stato islamico né ambire a “distruggerlo” (i termini usati dal presidente Obama), ma fare in modo di “sconfiggerlo”. Frederic Hof dell’Atlantic Council ha appena pubblicato un’analisi in cui dice che “l’abominio che è la Siria aumenterà il tasso di rassicurazione di altri paesi e da lì ci sarà un’emorragia di esseri umani in tutte le direzioni che continuerà per decenni. Questo potrebbe essere l’ultimo, proibitivo prezzo da pagare per aver seguìto una strategia univoca rivolta a tutto tranne che al cuore del problema”.

 

[**Video_box_2**]Il cuore del problema è che, per evitare lo scempio archeologico e quello umanitario delle migrazioni, è necessario intervenire con uomini e obiettivi. L’Amministrazione americana ha via via tentato di aggiustare il tiro in quest’anno di bombardamenti, e ha appena annunciato che voleranno i droni per colpire i leader dello Stato islamico. Distruggere con blitz mirati il Califfato che si fa forte della terra conquistata, dei popoli sottomessi, dei simboli antichi fatti esplodere solo per neutralizzarci nella nostra identità, suona tanto ipocrita come chi dice che bisogna curare i problemi dalle loro origini e quando parli di intervento militare si gira e fischietta.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi