L'attentato a Bangkok (foto LaPresse)

Perché la strage di Bangkok è diversa dalle altre

Massimo Morello

A una settimana dalla bomba nel centro della capitale tailandese che ha provocato 20 morti e un centinaio di feriti ci si continua a interrogare su chi e perché. Governo, polizia e istuzioni continuano ad alimentare confusione. Ecco perché.

“Ho capito una cosa: che non posso capire”. Questa era stata la prima lezione di un giornalista che viveva in Thailandia dai tempi delle guerra in Vietnam. Quello che sta accadendo in Thailandia dimostra che aveva ragione. Ma solo pochi occidentali hanno imparato la lezione.

 

A una settimana dall’attentato nel centro di Bangkok che ha provocato 20 morti e un centinaio di feriti ci si continua a interrogare su chi e perché. L’attentatore sembra essersi volatilizzato. Può essere thai, straniero, un thai travestito da straniero, un “khaek khao” (espressione per descrivere i musulmani dalla pelle chiara dell’Asia meridionale o centrale). Può essere un estremista dei gruppi che si oppongono al governo militare, oppure dei movimenti indipendentisti islamici nel sud della Thailandia, un vendicatore uiguro o un militante di una delle fazioni islamiche che si stanno diffondendo in Asia come un virus. Potrebbe anche essere, secondo le ultime ipotesi, un criminale comune, legato alle diverse mafie che operano in Thailandia: la yakuza, quella russa, le triadi cinesi, gli iraniani, le gang dell’Africa occidentale o indiane. In tal caso l’attentato potrebbe essere stato motivato da rivalità per il traffico di droga, da una vendetta o qualsiasi altra attività illegale. Senza contare che, secondo alcuni, il vero attentatore non sarebbe un uomo bensì una donna, oppure qualcuno con una maglietta nera anziché gialla.

 

Tanta confusione è alimentata da governo, polizia e istituzioni. Il primo ministro, il generale Prayuth Chan-ocha ha consigliato agli investigatori di guardarsi gli episodi della serie televisiva “Blue Bloods” che ha per protagonisti i detective di New York. “Può dare buone idee sui metodi investigativi” ha dichiarato. Secondo il capo della polizia, il generale Somyot Poompanmuang, invece, quello che serve è la fortuna: “Se abbiamo fortuna li prenderemo. Ma se la polizia non ha fortuna riusciranno a scappare”. Per tutti, la lentezza delle indagini è determinata dalla mancanza di un equipaggiamento moderno, sul tipo di quello utilizzato dai protagonisti di Csi. Dagli stranieri, però, è ben accetto solo l’equipaggiamento. “Questa è casa nostra, il nostro paese e non permetteremo a rappresentanti di altre nazioni di interferire nelle nostre indagini” ha dichiarato Somyot, dimenticando che poco prima era stata richiesta l’assistenza dell’Fbi. Nessuna spiegazione, poi, sul perché il corrispondente della Bbc abbia trovato frammenti della bomba sul luogo dell’attentato e la polizia a cui voleva consegnarli abbia declinato l’offerta.

 

Da parte degli osservatori internazionali, quindi, il tentativo di razionalizzare il comportamento delle istituzioni thai si sta trasformando nella tendenza a ridicolizzarlo. La tragedia diviene farsa. Tanto più che molte dichiarazioni ufficiali sono state rilasciate durante un giro in Soi Cowboy, una delle più famose zone a luci rosse di Bangkok, organizzata per rassicurare i turisti. Trovare un filo logico nel susseguirsi di dichiarazioni e smentite, di voci ufficiali e ufficiose, variabili incomprensibili, è come cercare di seguire una rappresentazione del Ramakien, la versione thai dell’interminabile poema epico indiano del Ramayana. Come riconoscere i personaggi del teatro delle ombre o districarsi nella giungla di riti e miti popolata di fantasmi ben rappresentata nei film del regista thai Apichatpong Weerasethakul. Una giungla in cui si continuano a scoprire fosse comuni di profughi vittime dei trafficanti di esseri umani.

 

Siamo in un altro mondo in cui bisognerebbe capire che non si può capire. In Thailandia, come in tutta l’Asia si segue una logica diversa: non lineare, determinata da nessi di causa effetto, bensì circolare, inclusiva in cui le contraddizioni non sono tali, la fortuna e l’occulto rientrano nelle variabili possibili. Il che spiega bene un’espressione diffusa in Thailandia: “Per ogni cosa c’è sempre un modo thai di farla”. In Thailandia, come in tutti gli altri paesi dell’area, inoltre, la verità è spesso celata in misteriosi ed esclusivi giochi di potere, di cui gli stranieri non conoscono le regole e a cui non possono assistere.

 

In questo vuoto d’informazioni e incapacità di comprensione, tra gli analisti occidentali una delle ipotesi più accreditate resta la pista del terrorismo islamico transnazionale. La pensa così, ad esempio, Matthew Wheeler dell’International Crisis Group. Secondo Wheeler, il governo si ostinerebbe a negarla per alimentare i sospetti verso l’opposizione interna, tanto più in un momento di crisi di credibilità ed economica. A quest’ultima il generale Prayut ha cercato di porre rimedio rimpiazzando i responsabili dei dicasteri economici, mentre a chi lo accusa di non aver riportato la felicità in Thailandia (questo era il suo slogan) ribatte che solo la giunta offre protezione dal conflitto civile, come dimostrano le scoperte di granate nelle zone “rosse” del paese.

 

[**Video_box_2**]L’ipotesi islamica, invece, è rafforzata dalla polizia indonesiana che indaga su possibili legami tra il gruppo terrorista dell’East Indonesian Mujahidin e gli attentatori di Bangkok. Secondo i servizi malaysiani, poi, in sud-est asiatico lo Stato islamico ormai rappresenta una minaccia ben più grave della Jemaah Islamiah. In questa prospettiva, la Thailandia si troverebbe nuovamente a essere la tessera centrale di una versione islamica della “teoria del Domino”. Elaborata negli anni della guerra fredda, sosteneva che, qualora una nazione chiave in una determinata area fosse stata conquistata da forze comuniste, le nazioni vicine sarebbero cadute anch'esse come tessere di un domino.

 

Il problema reale, oggi come allora, è che l’Asia è un continente che sfugge alla nostra comprensione e dove, ancora una volta, si stanno innescando crisi continue. Questa la tesi del professor Jean-Pierre Lehmann, che “analizza le dinamiche asiatiche nel contesto del disordine globale”. Nella sua visione l’instabilità thai evidenziata dall’attentato della settimana scorsa, qualunque ne siano movente e responsabile, è solo una delle tante crisi che infrangono il mito del miracolo asiatico: dall’Indonesia alla Malaysia, dalla Birmania alla Cambogia, dalla Cina alla Corea. Tutte dimostrano invece un andamento economico, geopolitico e ambientale caotico.
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