Il senatore Robert Menendez (foto LaPresse)

Sull'Iran i falchi di sinistra si gettano contro la politica liberal della speranza, il poster impolverato di Obama

Robert Menendez è il secondo senatore democratico, dopo Chuck Schumer, a smarcarsi dal presidente sull’accordo con l’Iran. Il suo discorso inquadra le lacerazioni della sinistra sul sempiterno tema della mano tesa alle canaglie.

New York. La dichiarazione di voto del senatore democratico Robert Menendez non cambia molto dal punto di vista dei numeri. E’ il secondo senatore di sinistra, dopo Chuck Schumer, a smarcarsi da Barack Obama sull’accordo con l’Iran, e soltanto undici deputati del partito sono sulla stessa linea. Obama non ha ancora in tasca i numeri necessari per blindare il voto al Congresso che incombe a settembre ma l’obiettivo è a portata di telefono. Ma il discorso con cui Menendez si è ufficialmente schierato contro l’accordo ha sporgenze ideologiche utili per inquadrare le lacerazioni della sinistra sul sempiterno tema della mano tesa alle canaglie. “Questo accordo è basato sulla speranza – mentre lo diceva si è materializzato nella testa degli ascoltatori il vecchio poster impolverato di Obama – La speranza che quando la clausola sullo stop nucleare scadrà, l’Iran avrà ceduto ai benefici del commercio e dell’integrazione globale. La speranza che i più conservatori avranno allora perso il loro potere e la rivoluzione avrà abbandonato i suoi obiettivi di egemonia. E la speranza che il regime lascerà che gli iraniani decidano del loro futuro. La speranza è parte della natura umana, ma sfortunatamente non è una strategia per la sicurezza nazionale”.

 

Come Schumer, Menendez ha opinioni dure sui dettagli del testo, dalla capacità nucleare dell’Iran dopo la tregua di dieci anni alle regole svantaggiose sulle ispezioni, fino all’oscuro sistema punitivo nel caso gli ayatollah violino l’accordo, ma al fondo disprezza sinteticamente l’idea obamiana su cui poggia il deal: quella secondo cui l’Iran sarebbe riformabile. Secondo la Casa Bianca, il ristabilirsi delle relazioni diplomatiche, l’apertura dell’economia e il conseguente accesso della popolazione al vocabolario occidentale dei diritti umani finiranno per far crollare l’impalcatura teocratica e canagliesca del regime.

 

[**Video_box_2**]E’ una speranza, appunto, e una speranza di ascendenza liberal che i falchi di sinistra, seppure impegnati da sempre nella promozione della democrazia, rifiutano di mettere alla base di un accordo. Schumer, Menendez e gli altri colleghi che riusciranno a convincere preferiscono in questo caso la prudenza scettica della scuola realista, quella che antepone i fatti alle speranze, e che non concepisce la storia come una corsa inevitabile verso un avvenire di diritti e democrazia. E’ la stessa che cavalca Bibi Netanyahu, che la settimana scorsa ha tenuto per due ore la delegazione democratica del Congresso in visita a Gerusalemme in un incontro a porte chiuse, ed è la stessa a cui aderisce la più importante associazione pro Israele in America, l’Aipac, che ha investito 40 milioni di dollari per una campagna estiva contro l’accordo. Il think tank di riferimento per gli antagonisti di sinistra dell’accordo è il Washington Institute for Near East Policy, dove si segnalano diversi ex diplomatici e consiglieri di sinistra (alcuni anche di Obama) intenti da mesi a bastonare il deal. Gli analisti del pensatoio hanno concentrato gli sforzi in una campagna per spiegare quali saranno le conseguenze nefaste del patto in un’area che non avrebbe bisogno di altre turbolenze. E’ la politica della realtà contro quella della speranza.