Hillary Clinton durante l'evento di inizio della sua campagna elettorale martedì a Denver (foto LaPresse)

Indagine in casa Clinton

Ehi, ora anche l'Fbi sta mettendo il naso nelle email sospette di Hillary

Lo scoop del Washington Post è un salto di qualità nello scandalo archiviato dalla candidata come fango della destra.

New York. Uno scoop del Washington Post spiega che l’uso disinvolto delle email da parte di Hillary Clinton durante il suo periodo al dipartimento di stato è finito all’attenzione dell’Fbi. Al momento non è stata formulata nessuna accusa, ma gli agenti federali hanno contattato David Kendall, l’avvocato di Hillary (“il governo sta cercando garanzie sullo stoccaggio del materiale. Stiamo cooperando attivamente”, ha confermato lui) e un’azienda di servizi tecnologici di Denver a cui la famiglia Clinton si appoggiava per la gestione dei server. Si erano rivolti alla compagnia Platter River quando il sistema era diventato troppo complesso per essere controllato dagli specialisti assunti da Hillary.

 

I contorni della vicenda sono noti: quand’era segretario di stato, la Clinton ha usato diversi account email personali, riconducibili al dominio clintonemail.com, per comunicazioni ufficiali, cosa proibita dalla legge che regola gli scambi fra funzionari di governo. Particolarmente discussi sono stati i messaggi fra lei e Sidney Blumenthal, vecchio sodale della famiglia ma senza incarichi di governo, il quale elargiva generosamente briefing sulla situazione in Libia che lei spesso inoltrava ai diplomatici, attribuendoli a una non meglio specificata fonte personale. I messaggi transitavano in un server privato custodito nella magione di Clinton a Chappaqua, aggirando i protocolli di comunicazione del governo, e così quando il caso è emerso in superficie Hillary ha consegnato i messaggi a carattere ufficiale al dipartimento di stato, che li sta rendendo pubblici mano a mano che ne verifica il contenuto. Quello che non è noto è se Clinton e il suo team abbiano effettivamente consegnato tutto il materiale al governo, o abbiano piuttosto dato un’antologia di mail – da 55 mila pagine – accuratamente selezionata.

 

[**Video_box_2**]Il Washington Post aggiunge alcuni dettagli alla vicenda, ad esempio che il server incriminato è stato installato dal team della campagna elettorale di Hillary nel 2008, e da allora una parte delle sue comunicazioni viaggiano su un canale parallelo al quale avevano accesso soltanto i collaboratori più fidati. L’altro punto oscuro riguarda naturalmente i contenuti delle email. Secondo la ricostruzione del quotidiano, a questo punto l’Fbi sta indagando sulla presenza nel server di famiglia di informazioni riservate, anche sulla scorta di una richiesta che il capo della commissione giudiziaria al Senato, Charles Grassley, ha inoltrato il mese scorso al direttore dell’Fbi, James Comey. Il senatore chiedeva quali misure il Bureau avesse preso per verificare la presenza di materiale classificato, e la risposta è arrivata attraverso il lavoro investigativo del Post. Un funzionario del dipartimento di stato ha confermato che già a maggio il governo ha rintracciato la presenza di informazioni riservate nei server clintoniani, e ha dato indicazioni ai legali della candidata alla presidenza di fare quanto era necessario per mettere in sicurezza i messaggi, per evitare leak di materiale secretato.

 

Non è roba per complottisti
Sugli eventuali rilievi penali della vicenda si vedrà, ma intanto la notizia che l’Fbi si sta occupando del caso introduce un elemento politico rilevante nell’eterno dibattito sulle email di Clinton, e più in generale sul modo opaco e ambiguo di gestire affari ufficiali: non si tratta di un’ossessione per monomaniaci di destra né di un complotto farsesco per anticlintoniani militanti. La strategia di Hillary finora è stata quella di rappresentare gli ultrà dello scandalo delle email alla stregua dei fissati urlatori che non credevano (e non credono ancora) all’autenticità del certificato di nascita di Barack Obama. L’interesse dell’Fbi non prova nulla per il momento, ma mostra che la questione è più seria di come la candidata la presenta.