Nella storia degli Stati Uniti non sono molti i politici con quarant’anni di carriera di cui la cosa peggiore che si possa dire è che parlano un po’ troppo a ruota libera e sono propensi a fare gaffe

Che cosa farà Joe Biden

Francesco Costa
Il figlio morto, la gara dei soldi, l’ultima chance per la Casa Bianca. Il vicepresidente studia la candidatura contro la corazzata Clinton, ma ha bisogno di un passo falso della predestinata.

Difficilmente Joe Biden è stato colto di sorpresa dall’articolo del New York Times che sabato, dopo settimane di voci mai confermate, ha rivelato che sta pensando seriamente di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti. L’articolo in questione – un raro caso di column con dentro una notizia, scritto da Maureen Dowd, un’istituzione del Times – conteneva dettagli e virgolettati di conversazioni avute dallo stesso Biden con i suoi familiari più stretti, e con suo figlio Beau in punto di morte: cose delicate e personali che è molto improbabile siano pubblicate da un quotidiano che non è un tabloid senza il consenso delle parti interessate. E’ plausibile quindi che Joe Biden lo abbia fatto apposta, per-vedere-l’effetto-che-fa: e l’effetto non è stato buono.
L’articolo raccontava, tra le altre cose, che dai giorni successivi alla morte di suo figlio Beau, Biden e i suoi parenti più stretti indossano un braccialetto con l’acronimo WWBD – “What Would Beau Do” – per ricordarsi di vivere le loro vite come avrebbe fatto Beau, a cui attribuivano la rara qualità del saper fare sempre la cosa giusta. Il racconto di questa storia in un articolo sulle intenzioni politiche di Joe Biden ha avuto però un effetto singolare: portare gli addetti ai lavori di tutto il paese a chiedersi WWJD, What Would Joe Do. Cosa farebbe Joe Biden, se davvero si candidasse alla presidenza degli Stati Uniti.

 

Giornalisti, sondaggisti, esperti e strateghi sono unanimi nel dire che la strada per una candidatura di Joe Biden alle presidenziali – una candidatura credibile e non velleitaria, all’altezza di un vicepresidente – sia particolarmente impervia. Biden è parecchio avanti con gli anni – ne compie 73 a novembre – ed è in giro da tantissimo tempo. Le sue posizioni politiche non sono così radicalmente distanti da quelle di Hillary Clinton: sarà difficile batterla puntando soprattutto su un tema di discordia molto grosso, come fece Barack Obama con la guerra in Iraq tra il 2007 e il 2008. Inoltre Hillary lavora alla sua candidatura da mesi, anzi, da anni: ha già aperto centinaia di comitati in tutto il paese, raccolto una montagna di soldi e messo insieme il più grande numero di dichiarazioni di sostegno dall’establishment del partito che si sia mai visto per un candidato che non è un presidente uscente. Per quanto impervia, però, quella strada esiste.

 

Nelle ultime settimane la campagna elettorale di Hillary Clinton ha mostrato due crepe significative. Confermando impressioni che non hanno sorpreso nessuno, i sondaggi stanno mostrando che la maggioranza assoluta degli elettori pensa che la grande favorita non sia onesta e affidabile: e che queste siano invece le principali qualità da cercare in un presidente degli Stati Uniti. Questa percezione è rafforzata dai due piccoli scandali che Clinton si sta trovando a gestire: il primo riguarda le email di lavoro che inviò da un indirizzo privato durante gli anni trascorsi da segretario di stato, il secondo riguarda l’imminente inizio delle audizioni alla Camera relative all’attacco di Bengasi nel 2011, nel quale fu ucciso l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens. L’unica strada credibile per una candidatura di Joe Biden passa innanzitutto per l’aggravarsi di questi problemi, che evidentemente si alimentano a vicenda: cioè per un collasso della candidatura di Hillary Clinton.

 

L’annuncio della candidatura di Biden, qualora si concretizzasse, potrebbe arrivare a settembre, se da qui alla fine dell’estate i problemi di Clinton dovessero aggravarsi; ma dato che Biden punta a fare il salvatore della patria, l’uomo anziano disposto a un grande sacrificio personale per salvare il partito da una candidata destinata alla sconfitta, potrebbe anche aspettare di più e fare un passo avanti all’inizio del 2016, dopo un eventuale risultato deludente di Hillary alle primarie in Iowa e in New Hampshire. Da quel momento comincerebbe la salita: Biden dovrebbe innanzitutto tentare di colmare il divario abissale in termini di organizzazione e finanziamenti che si è creato in questi mesi tra lui e Hillary Clinton.

 

Escludendo per ovvi motivi Barack Obama, se c’è una persona negli Stati Uniti che può pensare di ottenere con grande rapidità il denaro e la struttura organizzativa che serve per colmare quel divario, quella persona è Joe Biden. Nello scenario ipotetico in cui Hillary Clinton versi in grave difficoltà e gli elettori democratici comincino a dubitare seriamente delle sue possibilità di arrivare alla Casa Bianca, lo spauracchio di una presidenza Bush (o Rubio, o Walker) potrebbe allontanare da lei legioni di volontari: e d’altra parte molte delle persone che lavorano per lei alle primarie del 2008 avevano aiutato Barack Obama a sconfiggerla. Sul fronte dei finanziamenti, in oltre trent’anni di carriera da senatore e sette da vicepresidente Biden ha messo insieme una rubrica telefonica abbastanza lunga da non rischiare di essere già stata interamente svuotata da Hillary: ed esattamente come avvenne con Obama nel 2008, le piccole donazioni raccolte online dagli elettori potranno fare una grande differenza e, messe insieme, pesare quanto gli assegnoni staccati dagli imprenditori oggi legati a Hillary. Tutto questo, comunque, sarebbe nettamente la parte più difficile da mettere insieme: il resto – i contenuti, le policy, la comunicazione – sarebbe in confronto relativamente semplice. Biden sfiderebbe Hillary sul carattere.

 

Se le principali qualità che gli elettori cercano in un presidente sono l’onestà e l’affidabilità, si dà il caso che queste sono le principali qualità che gli elettori riconoscono in Joe Biden: nella storia degli Stati Uniti non sono molti i politici che hanno frequentato Washington per quarant’anni e di cui la cosa peggiore che si possa dire è che parlano un po’ troppo a ruota libera e sono propensi a fare gaffe imbarazzanti. Quello che per anni è stato considerato il principale difetto di Joe Biden – dire la cosa sbagliata al momento sbagliato – potrebbe diventare il suo punto di forza: una dimostrazione di calore, autenticità, pulizia e spontaneità che risalterebbero al confronto con l’atteggiamento più calcolato e meno empatico di Hillary Clinton, che intanto sarebbe costretta a fare i conti ogni settimana con scandali e commissioni d’inchiesta. “Joe Biden: Someone You Can Trust”: forse non è cool come “Change We Can Believe In”, ma farebbe comunque la sua figura sui cartelli dei militanti.

 

Dal punto di vista demografico, Biden colpirebbe Clinton proprio nel segmento dove sembra più fragile – il gradimento dei maschi bianchi e della working class – e potrebbe sperare in uno smottamento della generazione giovane ed etnicamente variegata che ha adorato Barack Obama e continua a sostenere le politiche dell’Amministrazione (il presidente, invece, resterebbe neutrale fino alla convention). Riguardo le policy, invece, gli basterebbe davvero il minimo sforzo: Biden è l’unico candidato alla presidenza che possa vantare un’esperienza pari a quella di Clinton in politica estera, ma senza il fardello di storie tragiche come Bengasi; e dette da lui le stesse promesse economiche a favore della classe media e per il salario minimo potrebbero risultare più credibili di quelle di una candidata che comunque, nel corso della sua vita, ha guadagnato milioni di dollari e fatto parte del consiglio di amministrazione di Walmart in anni di dure politiche anti sindacali.

 

[**Video_box_2**]Sulla base di queste premesse, la campagna elettorale di Biden dovrebbe necessariamente compiere il massimo sforzo nel minor tempo possibile: per accreditarsi come rivale credibile non basterà raccogliere grosse donazioni e fare bella figura nei dibattiti in tv, ma bisognerà ottenere risultati concreti alle primarie. Qui bisogna ricordare che per Biden questa sarebbe la terza candidatura alle presidenziali, e le altre due non furono esattamente memorabili: la prima, nel 1988, naufragò quando venne fuori che aveva copiato un discorso pronunciato da Neil Kinnock, allora segretario del Partito laburista britannico; la seconda, nel 2008, finì praticamente prima ancora di cominciare, quando ai caucus in Iowa ottenne un misero 0,9 per cento. Biden nel 2016 sarebbe obbligato a partire con un altro passo: anche tenendo da parte Iowa e New Hampshire, che hanno un grande valore politico ma assegnano una manciata di delegati, l’appuntamento da non fallire arriverebbe il 20 febbraio, con le primarie in South Carolina, e soprattutto martedì 1° marzo. Il Super Tuesday: il giorno su cui fare all-in e puntare tutto, sperando di svegliarsi la mattina dopo con un risultato che possa essere venduto alla stampa e ai finanziatori come una vittoria, e innescare una piccola valanga – quello che nella politica americana viene definito “momentum” – che lo porti alla vittoria nella maggioranza degli altri 14 stati in cui si vota a marzo.

 

Questo è il piano. Per vincere un’elezione, però, non basta fare tutto come si deve: serve anche che l’avversario faccia qualche guaio. Il copione a cui punterebbe Biden sarebbe quello del 2008, quando la forza emergente della candidatura di Obama, la sua organizzazione perfetta e i risultati sorprendenti ottenuti alle primarie mandarono in tilt la campagna di Hillary, che si aspettava una passeggiata verso la convention, e provocarono una catena infinita di errori, disastri di comunicazione e liti tra dirigenti, funzionari e strateghi. A quel punto Biden avrebbe un argomento in più per convincere gli elettori che con lei si andrebbe verso una sicura sconfitta a novembre: sarebbe, in poche parole, la tempesta perfetta.

 

Un simile allineamento di pianeti, però, rimane davvero improbabile: e basta che una di queste cose vada storta, come è verosimile, e la terza candidatura di Biden farebbe banalmente la fine delle altre due, cioè un buco nell’acqua. Che un rispettato uomo di stato settantatreenne sia disposto a correre questo rischio, a chiudere sconfitto e ferito una carriera politica che si può considerare già adesso invidiabile, rimane ancora difficile da credere.