Recep Tayyip Erdogan e Barack Obama (foto LaPresse)

"Safe zone"

Implicazioni del patto obliquo fra Obama ed Erdogan contro al Baghdadi. Aspettando il vertice della Nato - di Mattia Ferraresi

New York. I funzionari turchi e americani preferiscono chiamarla una “safe zone” o, anche meglio, una “Isis-free zone”, un’area libera dalle forze dello Stato islamico, dicitura che mette al centro il nemico comune nella partnership forgiata sull’asse Washington-Ankara. “No fly zone” sa di preludio a un intervento militare articolato, mentre “buffer zone”, la zona cuscinetto, evoca scenari a lungo termine. I ribelli siriani fanno una distinzione netta fra “no fly zone” e “safe zone”, e Charles Lister, analista della Brookings Institution a Doha, dice che l’accordo con cui la settimana scorsa la Turchia s’è gettata a capofitto nella lotta contro lo Stato islamico creerà una no fly zone de facto in una porzione del confine con la Siria lunga un centinaio di chilometri.

 

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan approfitta così dei recenti attacchi del gruppo di al Baghdadi sul suolo nazionale per mostrarsi duro con lo Stato islamico in Siria e contestualmente bombardare le forze del Pkk in Iraq, un doppio gioco che ha anche un triplo fondo se si tiene presente che fra gli obiettivi della Turchia c’è anche la detronizzazione di Bashar el Assad, cosa che allinea Ankara agli interessi dei ribelli siriani. Gli stessi ribelli che Barack Obama con fare sprezzante ha lasciato sostanzialmente senza aiuti militari. Gli ambasciatori della Nato si incontrano a Bruxelles convocati da Erdogan, che ha invocato il capitolo 4 dello statuto dell’Alleanza per organizzare un summit d’emergenza, e a quel tavolo si discuteranno i dettagli dell’offensiva. Innanzitutto si tratterà di stabilire quanto la “zona sicura” si spingerà all’interno del territorio siriano; poi capire quale sarà il ruolo dei gruppi di ribelli nel mantenere l’ordine sul confine, faccenda che diventa spinosa per gli americani quando si parla di satelliti di al Qaida come Jabhat al Nusra.

 

[**Video_box_2**]I nodi fondamentali sono già stati discussi dal generale John Allen, inviato per la campagna contro lo Stato islamico, e dalla controparte turca: gli aerei americani che bombardano le postazioni del califfo in Siria potranno partire da almeno due basi turche vicino al confine, cosa che Erdogan diceva che avrebbe accettato soltanto dietro l’istituzione di una no fly zone. L’obiettivo è arrivare a un accordo che permetta un’operazione militare congiunta contro le truppe del Califfato nell’area strategica fra Aleppo e l’Eufrate. In cambio, la Casa Bianca chiude un occhio, all’occorrenza due, sulle operazioni turche contro i curdi, con i quali fin qui l’America ha lavorato nelle operazioni contro lo Stato islamico. Con in tasca l’accordo firmato dagli americani, ottenere la benedizione della Nato non dovrebbe essere un problema per Erdogan, ma a nessuno dei membri dell’alleanza sfugge la complessità di una partita fatta di interessi che s’incrociano e collidono. Washington ha bisogno della Turchia per perseguire il suo obiettivo prioritario, la lotta allo Stato islamico, ed è disposta a concedere a Erdogan spazio di manovra per bombardare i curdi. Secondo Seth Frantzman, analista del Jerusalem Post, “Assad è il grande vincitore in questa partita”: la Turchia sarà troppo impegnata ad attaccare lo Stato islamico e i curdi per pensare ad Assad, e lo stesso l’America, che in questi anni ha speso ben poche energie per far capitolare il tiranno siriano.

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