Scontri tra miliziani in Libia lo scorso marzo (foto LaPresse)

Baghdadi perde la sua capitale in Libia e c'è poco da festeggiare

Daniele Raineri
Lo Stato islamico ha subìto una sconfitta militare dura ed è stato cacciato dalla sua capitale di fatto in Libia, la città di Derna

Roma. Lo Stato islamico ha subìto una sconfitta militare dura ed è stato cacciato dalla sua capitale di fatto in Libia, la città di Derna. La notizia arriva come una sorpresa: ci eravamo ormai abituati a una sequenza ininterrotta di notizie sui nuovi avanzamenti e sulle vittorie, pur piccole, del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi in Libia, simili per il ritmo e per la sensazione di impotenza che provocano a quanto già visto in Siria e in Iraq – anche se su scala ridotta. Come in Iraq (nel 2006) e in Siria (nel 2014), lo Stato islamico ha però imposto alla popolazione condizioni di vita troppo brutali e si è inimicato i gruppi combattenti locali, che si erano stabiliti negli stessi luoghi già anni prima. Governare nuovi territori è una formula complicata: lo Stato islamico tende per sua natura al controllo assoluto, ma spesso deve lavorare a compromessi necessari con i locali, quando perde questo equilibrio si trova disarcionato. Così, è successo che nelle prime due settimane di giugno la popolazione e un gruppo combattente locale hanno preso le armi contro lo Stato islamico e nel giro di cinque giorni lo hanno cacciato dalla città. Prima hanno attaccato i check-point dei baghdadisti che controllavano l’accesso alla zona est di Derna, poi sono avanzati verso il lungomare, occupando giorno dopo giorno gli edifici trasformati in basi dagli estremisti: l’ospedale, la moschea, il quartier generale della polizia religiosa e l’hotel al Louloa, un grande resort lungo, basso, circondato da palmizi e un po’ isolato, dove lo Stato islamico aveva stabilito il suo comando.

 

La notizia è tanto più sorprendente perché si tratta di Derna, considerata la capitale naturale dello Stato islamico in Libia per la sua lunga storia d’amore con l’estremismo islamico. Quando nel 2007 i soldati americani trovarono un registro dei combattenti stranieri dello Stato islamico in Iraq, a Sinjar (a pochi chilometri dal confine siriano: sarà stato un caso?), scoprirono che molti volontari del jihad venivano dalla Libia, e la città che più frequentemente compariva nel registro come luogo d’origine era Derna. Il rapporto tra popolazione e gente partita a combattere era il più alto sul pianeta. Ancora prima, negli anni Novanta, quando Gheddafi era alle prese con l’insurrezione islamista nell’area di Bengasi, Derna era considerata l’area più pericolosa. Era quasi scontato quindi che alla fine dell’estate 2014, quando Abu Bakr al Baghdadi ordinò la colonizzazione della Libia, Derna fosse scelta come approdo e base di partenza per l’impresa. A Derna tornarono dalla Siria i combattenti della brigata al Battar – vale a dire della brigata dello Stato islamico formata in maggioranza da libici partiti per il medio oriente due anni prima. Baghdadi mandò anche, come comandante, Abu Nabil al Anbari, un ex militare iracheno che a quel tempo era emiro della provincia di Salaheddin (è in Iraq, attorno alla città di Tikrit: zona ad altissima densità di fedeli di Baghdadi).

 

Come in Iraq e in Siria, questa sconfitta dello Stato islamico non equivale alla vittoria di un circolo di costituzionalisti ispirato a Thomas Jefferson, ma alla vittoria di un gruppo jihadista, in questo caso legato ad al Qaida. Il gruppo si chiama Majlis Shura Mujaheddin, in arabo il consiglio dell’esecutivo dei mujaheddin, ed è lo stesso nome preso in Iraq e in Siria dai gruppi che poi si sono trasformati nello Stato islamico: la parentela è stretta. I baghdadisti hanno commesso l’errore di uccidere uno dei suoi capi, Nasser al Akr, e di provocare con la rigidità della sua ideologia: poche settimane fa un predicatore durante un sermone ha sostenuto che chiunque non stia dalla parte dello Stato islamico è ipso facto un infedele – e la cosa non è stata ben accolta, comprensibilmente.

 

[**Video_box_2**]Allo Stato islamico restano altre città, Sirte e, in parte, Sabratha. Nota finale: dov’erano in questa battaglia il presunto alleato dell’occidente, il generale Khalifa Haftar, e il governo di Tobruk, che chiedono la fine dell’embargo sulle armi “per combattere il terrorismo” e sottolineano che lo Stato islamico minaccia l’Italia?

 

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)