Membri delle forze di sicurezza palestinesi fedeli ad Hamas marciano durante una cerimonia nella Striscia di Gaza (foto LaPresse)

Il mondo alla rovescia all'ombra del deal iraniano e di al Baghdadi

Rolla Scolari
Le alleanze perverse, i valichi aperti, le strette di mano e i poster strappati in giro per il medio oriente nel caos

Milano. Non c’è ancora alcuna firma, ma l’intesa sul contenimento del programma nucleare di Teheran che dovrebbe essere ratificata tra una settimana tra le cinque nazioni del Consiglio di Sicurezza più la Germania con l’Iran sta trasformando già da mesi antichi paradigmi e creando alleanze prima impensabili. I contorni del medio oriente cui siamo abituati sono già stati erosi dall’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. Il sorgere di nuovi sodalizi per bloccare la minaccia estremista ha trasformato equilibri durati più o meno bene per decenni e, anche in questo caso, dominata dal riposizionamento della Repubblica islamica degli ayatollah. Malgrado un viscerale scetticismo internazionale, con l’azione della proprie milizie Teheran agisce in Iraq là dove l’esercito nazionale arretra, e argina a sud l’avanzata dello Stato islamico.

 

Hezbollah non brucia la bandiera a stelle e strisce. Il grado di amicizia con i regimi di Damasco e Teheran è in Libano l’unità di misura per interpretare la complessa politica locale, riassumibile oggi nell’opposizione di due gruppi. I sostenitori del 14 marzo – quel giorno del 2005, un mese dopo l’assassinio del premier amico di Washington, Rafiq Hariri, in cui milioni di persone scesero in piazza a Beirut contro la presenza siriana nel paese – e quelli dell’8 marzo – la data di un’altra protesta, organizzata da Hezbollah, alleato del regime di Damasco a sua volta appoggiato dall’Iran. Queste divisioni, in vista di un accordo tra americani e iraniani, potrebbero smussarsi, in un’artificiale unificazione d’intenti. Scrive il deputato del partito vicino ai sunniti di Hariri, Bassem Chab, sul sito libanese Daily Star, che già nei quartieri sciiti nel sud di Beirut, roccaforte di Hezbollah, stanno scomparendo i poster anti americani che solitamente tappezzano la zona. Perfino la robusta retorica anti americana del segretario generale Hassan Nasrallah si è indebolita. Hezbollah tollera il sostegno americano all’esercito libanese, i voli dei droni americani per il monitoraggio di gruppi estremisti sunniti siriani sulla valle della Bekaa, feudo delle milizie sciite al confine con la Siria.

 

Sulla pista di atterraggio di Baghdad. Il controverso accordo sul nucleare arriva in un momento in cui la comunione d’intenti tra America e Teheran è rafforzata dalla lotta contro lo Stato islamico in Siria e Iraq. “Un grande aereo militare cargo – raccontava nel giugno del 2014 il britannico Guardian – scende su Abu Ghraib, per atterrare all’aeroporto di Baghdad. Ad assistere  c’è anche un convoglio delle più temute milizie in quella terra, sostenute dall’Iran: Asa’ib ahl al Haq. Alcuni membri siedono con nonchalance sotto la rotta del volo. Lo stesso giorno, il loro comandante, il generale Qassem Suleimani, leader della Forze al Quds delle Guardie rivoluzionarie iraniane, ha lasciato Baghdad per Najaf, e poi per Teheran, per gestire i piani di difesa della capitale”. Quella irachena. Sulla carta, gli americani sostengono con la propria aviazione l’esercito iracheno, non le milizie sciite che combattono al suo fianco, ma ormai da mesi crescono indiscrezioni su collaborazioni più strutturate: “Vecchi nemici stanno adesso condividendo intelligence – ha detto a Martin Chulov del Guardian un politico iracheno – Persino gli iraniani ora hanno accesso a qualche lavoro della Cia” contro lo Stato islamico.

 

Perdere Erdogan a Kobane. La strategia dell’Amministrazione Obama è quella di evitare i “boots on the ground” in medio oriente, nonostante aumenti con il passare del tempo il numero di forze speciali e militari dedicate all’addestramento dei soldati iracheni. Per gli Stati Uniti, la via da seguire è quella di combattere il nemico estremista attraverso l’azione sul campo degli alleati locali. I curdi iracheni sono nel nord dell’Iraq i “boots on the ground” di Washington, e anche questa collaborazione cambia equilibri di lunga data. Nell’ottobre 2014, il portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha rivelato l’incontro tra un diplomatico statunitense e la controparte del Partito curdo-siriano dell’Unione democratica: uno sconvolgimento dei paradigmi se si pensa che il movimento è vicino al Pkk, il partito dei lavoratori curdo sulla lista delle organizzazioni terroristiche dell’alleato turco, degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Il disagio e l’ansia del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, per il coinvolgimento curdo nella missione internazionale anti Stato islamico è sfacciato. Si è ingigantito con l’inedita vittoria di un partito curdo alle elezioni parlamentati. L’Hdp, partito democratico del popolo, è un gruppo di sinistra, lontano dalla tradizionale società conservatrice curda. La ragione per cui ha attirato compatto così tanti voti si chiama Kobane, cittadina curda siriana al confine con la Turchia, per mesi sotto attacco dello Stato islamico e liberata dalle milizie curde, mentre a pochi metri di distanza i carri armati turchi stavano fermi lungo la frontiera.

 

Strette di mano ufficiose. La convergenza di interessi tra America e Iran è iniziata con la riapertura delle relazioni tra i due paesi, nel 2013. I primi negoziati sul nucleare sono stati tenuti per mesi nascosti ai più grandi alleati di Washington in medio oriente. Israele e Arabia Saudita sono formalmente nemici, accomunati ora dal timore di un’intesa sull’atomica. Così, il nuovo re saudita Salman ha snobbato un invito della Casa Bianca a un summit sulla questione a Camp David. E se da anni è un finto segreto che Israele e paesi del Golfo in qualche modo si parlino, la stretta di mano avvenuta a Washington qualche settimana fa a uso e consumo delle telecamere tra il direttore del ministero degli Esteri israeliano, Dore Gold, e un ex consigliere del potente principe Bandar bin Sultan, Anwar Majed Eshk, ha avuto come obiettivo quello di mostrare una comune disaffezione per le politiche dell’alleato Obama.

 

Meglio i vecchi nemici dei nuovi mali estremi. Se l’Iran spinge Israele ad avvicinarsi ai nemici di vecchia data, la pervasività dello Stato islamico induce il governo di Benjamin Netanyahu a preferire i vecchi vicini di casa a nuovi e meno conosciuti estremismi. Nei giorni scorsi sono emerse voci su una tregua tra Hamas e Israele e da giorni i valichi di confine con Israele sono stati aperti al passaggio di materiali edili usati per la ricostruzione delle centomila case distrutte o danneggiate nella guerra dell’estate 2014. Anche il valico di Rafah con l’Egitto è stato riaperto. In cambio del passaggio di beni al confine, il movimento islamista che controlla Gaza avrebbe garantito la cessazione del lancio di razzi. I missili in queste giorni hanno colpito ugualmente il sud d’Israele, che ha risposto bombardando edifici vuoti. Lo ha fatto perché all’origine non ci sarebbe Hamas, ma gruppuscoli legati allo Stato islamico, ha scritto la stampa israeliana. Non è un caso dunque che la notizia di una possibile tregua con un nemico conosciuto – e se rafforzato economicamente in grado di controllare capillarmente Gaza – arrivi proprio ora. Le indiscrezioni hanno coinciso con minacce di dimissioni del governo di unità nazionale in Cisgiordania. E non sono in pochi ad aver pensato che il presidente Abu Mazen sia stato tenuto lontano da trattative che teme: una tregua nella Striscia rafforzerebbe i rivali interni di Hamas, mettendo fine alla possibilità del suo partito, Fatah, di tornare protagonista della vita politica palestinese con una riunificazione della Cisgiordania e di Gaza.

 

L’Egitto, l’alleato a tutto tondo. Hamas deve paradossalmente allo Stato islamico un ritorno nelle grazie del mal disposto vicino egiziano. Il regime di Hosni Mubarak colpiva il movimento palestinese di Gaza, nato da una costola della Fratellanza musulmana egiziana, poi c’è stata la parentesi del presidente islamico Morsi, ma con Abdel Fatah al Sisi la politica di repressione è ricominciata. Ma ora il governo del Cairo ha deciso di cancellare Hamas dalla lista nera dei gruppi terroristici. I giornali locali hanno scritto che funzionari di Hamas starebbero collaborando proprio con quei militari che durante la guerra dell’estate 2014 tra Tsahal e il gruppo palestinese non hanno nascosto nel protrarsi di inconcludenti negoziati il proprio sostegno all’operazione israeliana. L’obiettivo sarebbe ora indebolire i gruppi estremisti del Sinai egiziano sul confine con la Striscia, come Ansar Beit al Maqdis, che hanno giurato fedeltà allo Stato islamico. L’Egitto riannoda una rete di alleanze che con Sisi è diventata multi-direzionale: i sauditi, presi in giro in recenti intercettazione telefoniche, continuano ad aprire i loro forzieri a colui che tiene in scacco quei Fratelli musulmani indigesti anche a Riad; la visita di Vladimir Putin al Cairo a febbraio è stato un messaggio alla comunità internazionale; gli americani restano i maggiori fornitori di aiuti militari nonostante la situazione dei diritti umani in Egitto sia stata criticata da alcune organizzazioni internazionali; l’Europa, come l’America, appoggia senza riserve il generale per il suo conclamato impegno contro gli estremismi.

 

[**Video_box_2**]L’emirato islamico scrive allo Stato islamico. A giugno, sui siti legati ai talebani afghani, è stata pubblicata una lettera firmata da un capo del comitato politico, Akhtar Mansour, e indirizzata al leader dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, riassumibile così: “Non intromettetevi negli affari nostri”. Secondo l’Afp, nei giorni scorsi, nella provincia orientale afghana di Nangarhar, centinaia di famiglie sarebbero state sfollate a causa di scontri violenti tra comandanti talebani fedeli all’organizzazione e fuoriusciti vicini allo Stato islamico. Il Califfato non ha mai ufficializzato una presenza in Afghanistan e, nonostante lo stesso comandante di quello che resta delle forze Nato nel paese, il generale John Campbell, abbia detto che gli estremisti starebbero reclutando, i loro numeri nella regione restano bassi. La missiva talebana tradisce però un’irrequietezza, sottolineata anche da Wall Street Journal e Daily Beast, secondo cui per arginare un eventuale sbarco dello Stato islamico in Afghanistan i talebani avrebbero lavorato a un’alleanza finora impensabile, quella con i vicini sciiti iraniani. Comandanti talebani, funzionari afghani e occidentali intervistati hanno parlato di una possibile fornitura iraniana di armi e munizioni ai più stagionati combattenti del jihad.