Una macchina della polizia abbandonata in mezzo ai riots di Baltimora, scoppiati alla fine di aprile dopo i funerali di Freddie Carlos Gray

Il nero d'America

Daniele Raineri
A maggio 43 omicidi a Baltimora. Il senso di una guerra invisibile. E' cominciato tutto con la morte di un ragazzo di colore mentre si trovava nelle mani della polizia.

– Facciamo la guerra al traffico di droga… un caso violento alla volta.
– Girl, non pensare nemmeno di chiamarla “guerra” questa cosa qui.
– Perché no?
– Le guerre finiscono.

(Nella prima puntata della serie televisiva “The Wire”, giugno 2002, a Baltimora)

 

Appesa alla parete corta dell’open space dove lavora la squadra omicidi di Baltimora, Maryland, c’è una lavagna bianca lavabile. Gli agenti ci scrivono sopra l’elenco dei cadaveri trovati nelle strade o dentro le case, cadaveri da andare a controllare, identificare e se è il caso iscrivere nella lista dei casi di omicidio, fino a quando si verificherà uno dei due soli esiti possibili: oblio e archiviazione (in certi mesi la maggioranza) oppure soluzione del caso e arresto dello sparatore – perché nel 99 per cento delle volte si tratta di morti ammazzati a pistolettate. La lavagna bianca si intravede nella serie tv “The Wire”, scritta da un ex poliziotto della città e quindi c’è ragione di credere che sia appesa a quella parete  anche nella realtà, a meno che non abbia un effetto troppo depressivo sulle menti degli agenti di Baltimora perché una percentuale enorme di casi resterà per sempre unsolved. L’elenco con i pennarelli colorati sulla lavagna serve proprio a questo scopo, a tenere sotto controllo la percentuale mensile di clearance, ovvero i casi che sono stati risolti e quindi la performance lavorativa della squadra omicidi (che infatti festeggia se un sospetto omicidio si rivela essere un decesso per cause naturali oppure un suicidio: un morto ammazzato di meno, quindi lavoro di meno, il caso viaggia facile verso l’abisso immemore di archivi che ingoiano almeno duecento omicidi ogni anno). Più gli agenti cancellano casi dalla lavagna, più il loro capo è felice, più il commissario della polizia sopra di lui nella catena di comando è soddisfatto e più il sindaco di Baltimora in cima alla catena di comando è sereno: in caso contrario si scatena un’iradiddio, perché la statistica degli omicidi in città influisce direttamente sulle chance di rielezione ogni quattro anni, e quindi c’è una catena a ritroso di bile, sfuriate e lamentele. Gli unici a essere allegri sono quegli avvoltoi dei giornalisti. Percentuale di “clearance” della squadra omicidi a Baltimora nei primi quattro mesi dell’anno: 53 per cento dei casi. Media nazionale: 64 per cento, dieci punti più alta.

 

Questo mese di maggio la squadra omicidi di Baltimora ha aggiunto sulla lavagna 43 casi di omicidio, che è un record negativo senza precedenti. Più di quarant’anni fa c’era stato lo stesso numero, ma era il dicembre 1971, quando la città era più grande – almeno un terzo più grande – e più popolata. Ora il tempo è passato, c’è stata la crisi, la gente è andata via e la città si è ristretta (tanto per dare una prospettiva temporale: dicembre 1971, in Italia elezione del presidente Giovanni Leone). Secondo l’Fbi, di solito nella città di Baltimora la media di omicidi nel mese di maggio è di 21 morti – dati presi tra l’anno 2009 e il 2014. Questa volta è il doppio. Immaginarsi la faccia del sindaco (le elezioni dovevano essere quest’anno, fortuna per lei che invece sono state spostate all’anno prossimo per meglio allinearsi al ritmo di quelle nazionali).

 

Cosa è successo di speciale a Baltimora a maggio? Il primo giorno del mese il procuratore ha rinviato a giudizio sei poliziotti per la morte di Freddie Carlos Gray, il giovane nero morto per lesioni alla spina dorsale mentre era nella custodia della polizia. Gli agenti sono stati liberati su cauzione e ora aspettano il processo per una serie di reati che arrivano in un caso fino all’omicidio di secondo grado – che è quando un omicidio manca del requisito della premeditazione oppure non è caratterizzato “da particolare crudeltà nell’esecuzione”. Fonti anonime dicono alla rete Cnn che dentro al dipartimento di polizia di Baltimora (in maggioranza nero) sono furiosi e non appoggiano la lista dei reati imputati ai sei agenti dal procuratore. Rompendo una tradizione lunga, l’ufficio del procuratore non ha mandato i rapporti sul caso alla polizia.

 

Sia il sindaco, Stephanie Rawlings-Blake, sia il procuratore, Marilyn J. Mosby, sembrano uscite da una sceneggiatura di Shonda Rhimes, la scrittrice di serie tv più potente d’America. Belle, nere e volitive, sanno che il caso Gray ha il potenziale distruttivo per demolire l’amministrazione della città. La prima è arrivata all’incarico quando la sua capa, il sindaco che l’aveva preceduta, s’è fatta arrestare per appropriazione indebita. I media conservatori la detestano e due anni fa ha rotto con il suo alleato migliore, il governatore democratico (e bianco) Martin O’Malley perché quello chiedeva più arresti e una linea di “tolleranza zero” per abbassare le percentuali del crimine in città – ma lei rispose “non voglio che i ragazzi si sentano in stato d’assedio”. L’anno scorso Vanity Fair l’ha messa nella lista dei dieci sindaci meglio vestiti d’America. La seconda è figlia di due agenti di polizia e due giorni fa ha annunciato che il referto dell’autopsia del giovane ucciso in custodia saranno secretati, o almeno lei chiederà lunedì che siano secretati con un ordine protettivo, “perché il processo ai sei poliziotti deve essere imparziale e non diventare uno show sui media”. I giornali commentano che il procuratore teme la pubblicazione dell’autopsia perché potrebbe riaccendere gli scontri.

 

Alla fine di aprile i funerali di Gray hanno scatenato un sabba di proteste durato cinque giorni e di violenze predatorie nelle strade (durate meno), con saccheggi di negozi, intervento della Guardia nazionale piazzata con quel suo goffo assetto di guerra ai crocicchi delle vie, imposizione di coprifuoco municipale (che fa sempre esotico: c’è il coprifuoco) e una ondata di crimini violenti – e anche questa fa la gioia dei titolisti: “crimewave!”. A questo punto gli osservatori di fatti violenti nella città di Baltimora hanno aderito a due scuole di pensiero e hanno disegnato nell’aria due scenari, che qui per comodità chiameremo “Arrivano gli zombie” e “Batman non c’è più” – in omaggio a due generi cinematografici di successo.

 

Quelli che seguono la prima scuola di pensiero la buttano un po’ sul sociologico, dicono che i riots hanno scatenato la tensione latente e sempre presente tra i quartieri belli e quelli brutti di Baltimora, tra quelli vivibili e quelli dove non si vive, che a volte distano soltanto tre chilometri tra loro ma appartengono a continenti differenti: in otto quartieri di Baltimora l’aspettativa di vita media è inferiore a quella della Siria, rileva il Washington Post. I disordini hanno quindi fatto scoccare una scintilla tra due poli già carichi. A questo c’è da aggiungere che “l’area metropolitana di Baltimora è popolata da decine di migliaia di addict” (scrive il Baltimore Sun), tossicodipendenti che prima dei saccheggi si affidavano a linee di rifornimento di droga stabili e ben definite. Gli esperti dicono che quando il mercato degli stupefacenti è turbato da eventi imprevisti e cataclismatici, come è successo per esempio a New Orleans per il passaggio dell’uragano Katrina o a Baltimora con i riots, allora subentra il caos: la gente assalta farmacie e ambulatori e saccheggia tranquillanti, sedativi e narcotici in generale, per sfamare il bisogno di droga e allontanare il rischio di una crisi d’astinenza. A Baltimora in due giorni i rivoltosi hanno attaccato e svuotato ventisette farmacie e due cliniche per la somministrazione del metadone.

 

Oltre quello che trovano sui banconi dei medicinali, i predoni vanno poi ad arraffare prodotti di valore ma non tracciabili, da rivendere subito agli angoli delle strade come scatole di scarpe sportive, giacche e liquori: le sneaker da 150 dollari andavano subito via per un prezzo compreso tra 50 e 75 – scrive il Baltimore Sun – giacche da 200 dollari e bottiglie di whiskey volavano via sul mercato istantaneo per la metà del valore “legale”. Anche con centinaia di poliziotti e migliaia di soldati della Guardia nazionale schierati nelle strade, si alza la “crimewave”: cittadini che si sentono le calcagna rosicchiate dalla dipendenza e non possono più ritardare l’appuntamento con l’impulso chimico si mettono in moto e sono pronti a qualsiasi cosa, “Arrivano gli zombie” appunto.

 

Il commissario capo della polizia, Anthony Batts, dice che sono i farmaci con prescrizione obbligatoria trafugati durante i saccheggi e finiti in mano agli addict ad alimentare l’ondata di omicidi in città: almeno 175 mila dosi – che sul flacone portavano secondo legge il nome del cliente a cui erano destinate e ora circolano sul mercato nero – e potrebbero essercene altrettante in circolazione, ancora non denunciate dalle farmacie saccheggiate. “C’è abbastanza droga in giro da tenere le strade di Baltimora intossicate per un anno – dice Batts – questa quantità di droga ha fatto perdere il controllo alla città”.

 

Il sindacato di polizia di Baltimora invece dice ai giornalisti che si sta prospettando il secondo scenario, “Non c’è più Batman”. Per Gene Ryan, presidente della Fratellanza della polizia della città, dopo le rivolte di aprile ora molti abitanti di Baltimora sentono di potere commettere crimini con impunità. “Gli è stato permesso di violare la legge senza subire conseguenze. Ora non credono più che saranno perseguiti”. Ryan dice alla rivista Time che ora molti poliziotti con cui ha parlato sono inibiti da quello che è successo ai sei colleghi in attesa di processo, hanno paura di commettere errori e di essere rinviati a giudizio pure loro. “Hanno paura di fare il loro lavoro. Ora temono di più la prigione che di essere uccisi”. Il numero degli arresti in città è calato del 57 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. “Gli agenti con cui ho parlato dicono che adesso è diverso”, dice anche Peter Moskos, professore di Giustizia criminale in città ed ex poliziotto. “Mi dicono: se devo finire nei guai per sbagli che ho commesso con le migliori intenzioni, be’, vaffanculo, allora è meglio non lavorare”. Il Wall Street Journal lo chiama “Effetto Ferguson”, dal nome della città del Mississippi diventata famosa per un caso di omicidio della polizia. Alcuni agenti di Baltimora raccontano che quando provano a fare un arresto sono circondati da decine di persone che li intimidiscono e li filmano. Risultato: la lavagna non era così brutta dal 1971. I giornali fanno capire che la polizia in città si sta comportando come quelle squadre che vogliono esonerare l’allenatore e allora scendono in campo senza più nemmeno fare finta di giocare la partita, subiscono i gol, non reagiscono, un disastro – perché ormai conta solo far vedere che chi dirige sta sbagliando, e che sono loro in strada a fare la differenza, però la fanno soltanto se e quando vogliono. Là fuori ci sono dei criminali, gli errori capitano, e in fondo loro chiedono: è così che volete Baltimora? In mano ai narco-pistoleri?

 

[**Video_box_2**]Adesso due grandi complicazioni in più vanno a gravare sulle spalle della squadra omicidi di Baltimora e sono il caldo e la politica. Il primo, si sa, aizza gli animi inclini alla violenza, eccita i criminali, alzerà i numeri di statistiche che già non sono per nulla buoni – alcuni sociologi con aria condizionata dicono che semplicemente la gente sta meno chiusa in casa e quindi delinque di più. Non è di grande consolazione. La politica invece sta sposando l’una o l’altra delle due scuole di pensiero cui si è parlato. A sinistra si tende di più verso gli zombie che tracimano per impulso sociale e chimico, per la tensione che scocca tra i poli del disagio e della ricchezza: “Eppure – si è giustificata la sindaco di Baltimora con una gaffe memorabile dopo le devastazioni – la polizia aveva lasciato spazio per compiere distruzioni a quelli che avessero voluto farlo”.

 

A destra si porta di più la tesi “Credevate che il problema fosse Batman? Ora sono fatti vostri”. Più che #blacklivesmatter, le vite dei neri contano, il problema è che #blackviolencematters, scrivono: conta la violenza dei neri contro i neri. Come dire: tanta retorica sprecata, tante marce indignate, e poi ecco qui cosa succede, ci sono quartieri neri dove si spara più che in Iraq. Il ragionamento può funzionare, e infatti il rapper migliore di questi anni, Kendrick Lamar, dice la stessa cosa: non suona un po’ vuoto fare le marce a favore dei fratelli vittime della polizia, quando poi torniamo a scannarci tra neri come prima e a esaltare questa violenza? C’è però il sospetto forte che i commentatori di ispirazione conservatrice non abbiano poi a cuorissimo la situazione dei neri nelle metropoli a rischio, e che non facciano polemica per porre rimedio al disagio: stanno mirando a un unico nero, quello che siede alla Casa Bianca e doveva rappresentare, con la sua doppia elezione, la fine della questione razziale in America.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)