Scene di combattimento tratte da un video dello Stato islamico

Notizie da Ramadi per Obama

Daniele Raineri
Surreale: il Pentagono dice che lo Stato islamico è “sulla difensiva”, ma il gruppo estremista se ne infischia di bombe e sforzi internazionali e prende una città capitale

Prima le notizie false. Un mese fa il governo di Baghdad ha detto di avere ucciso in un’imboscata Ibrahim Izzat al Douri, il “re di fiori”, il vice di Saddam Hussein quando nel paese c’era ancora un regime a partito unico, il partito Baath. I soldati hanno portato in processione, assai poco devota, il cadavere dell’uomo ricercato da tredici anni dentro una bara con il coperchio di vetro perché fosse visibile a tutti la barbona rossiccia e musulmana che s’era lasciato crescere. La fine di al Douri è stata raccontata così: l’intelligence del governo aveva informazioni su un pezzo grosso dello Stato islamico, forse addirittura il capo Abu Bakr al Baghdadi in persona, che dopo un incontro segreto sarebbe passato per Hawija, una città occupata dal gruppo estremista nel nord del paese. Appena al di fuori gli hanno teso un agguato, ma hanno scoperto di avere invece ucciso il temutissimo ex generale tikrita. La notizia ha fatto il giro dei media internazionali e ha rafforzato la tendenza – recente – a considerare i nostalgici del monopartito Baath e gli ultrà religiosi dello Stato islamico come una cosa sola, e in Iraq viene anche comodo credere che davvero sia così al cento per cento: “Vedete? Vogliono riprendersi il paese, sono disposti a tutto, vogliono la dittatura com’era prima”. Non c’è argomento migliore per mettere paura alla maggioranza sciita. Dopo l’annuncio, il governo ha detto che per avere la conferma definitiva sulla morte di Al Douri avrebbe confrontato il Dna di quel corpo in vetrina con un campione del Dna del generale in teoria custodito a Baghdad. Da Baghdad hanno però risposto: “Quale campione di Dna? Dovremmo averlo noi?”. Si è capito che qualcosa non quadrava. La settimana scorsa è uscito un audio messaggio di al Douri, che appare registrato di recente. Prima della morte? Oppure non è mai stato ucciso, quel corpo era di un altro e lui è vivissimo e operativo? Tutta la certezza con cui la notizia era circolata si è sciolta.

 

L’audio messaggio a sorpresa del generale fantasma ha fatto poca notizia in Iraq, perché la settimana scorsa è stata occupata da un “successo” del governo forse anche maggiore, e montato come la panna: il ministero della Difesa iracheno ha annunciato che gli aerei americani hanno eliminato Abu Alaa al Afari, l’uomo che sta rimpiazzando il capo al Baghdadi, ferito gravemente alla schiena secondo una precedente notizia – anzi, “notizia”. Al Afari aveva appena cominciato la sua scalata all’attenzione dei media internazionali. Un ritratto sul Guardian ad aprile, un altro su Newsweek una settimana dopo, una taglia davvero alta da sette milioni di dollari annunciata dal dipartimento di stato americano il 6 maggio, come a voler ufficializzare il suo status di nuovo comandante dello Stato islamico. Il portavoce del ministero della Difesa sostiene che al Afari è stato colpito venerdì 8 maggio durante un incontro segreto con altri capi dentro una moschea vicino a Tal Afar e ha fatto girare tra i giornalisti il video in bianco e nero del bombardamento. Il Pentagono però ha smentito nel giro di poche ore e sostiene di non avere mai colpito una moschea. Il video del bombardamento poi è risultato essere del 4 maggio e in una zona diversa, quindi non può essere quello della morte presunta di al Afari. C’è da fidarsi? Poco, considerato che il capo al Baghdadi è allegramente dichiarato morto una volta ogni quadrimestre, in media. Il giorno dopo la notizia della morte di al Afari è uscito un messaggio audio di al Baghdadi, trentaquattro minuti registrati probabilmente durante gli ultimi cinque giorni di aprile. Non sembra per nulla “incapacitato” o “fuori combattimento”, come dovrebbe essere a dare retta alle storie che circolano.

 

Dunque il vice di Saddam parla, Baghdadi parla, al Afari è vivo*. Ora la notizia vera: Ramadi, la capitale della regione più grande dell’Iraq, a centodue chilometri di autostrada da Baghdad, è caduta sotto il controllo dello Stato islamico dopo tre giorni finali di combattimento – e dopo anni di minaccia incombente. I soldati e la polizia che da sedici mesi resistevano a un assedio a tratti intenso e a tratti meno questa volta sono scappati in massa, parecchi in abiti civili ché non si sa mai chi s’incontra per strada, e hanno ignorato l’ordine del primo ministro iracheno, Haider al Abadi, che aveva detto loro di resistere e di tenere le posizioni. Le forze speciali hanno tentato un’ultima resistenza dentro lo stadio Mal’ab, dove nel 2006 al Qaida in Iraq filmava le esecuzioni, hanno anche chiamato migliaia di cittadini locali a raccogliersi lì in attesa dei rinforzi, poi però i soldati hanno avuto paura che tra la gente che arrivava in cerca di rifugio ci fossero agenti dello Stato islamico, hanno chiuso i cancelli, li hanno tenuti fuori. Il giorno dopo anche gli ultimi militari sono scappati verso Baghdad, anzi verso Habbaniyah, che è prima, dove c’è una grande base militare in cui un centinaio di istruttori americani addestra altre truppe.

 

Lo Stato islamico ha preso anche la base dell’Ottava brigata, appena fuori città. Quando c’erano ancora gli americani (i marine in questo caso) era chiamata Camp Ramadi. Chi scrive c’è stato nel 2007, è un complesso così ampio che sulle strade sterrate al suo interno le jeep e i pickup rimbalzano quasi sulla linea dell’orizzonte mentre spostano il personale da una parte all’altra. In un angolo c’era una mitragliera antiaerea dei tempi di Saddam, inutilizzabile, conservata come trofeo. Ora ha di nuovo cambiato padrone. Nell’estate 2006 quei marine avevano combattuto una delle loro battaglie più famose dentro il compound governativo di Ramadi, mesi di resistenza per non abbandonare l’edificio, diventato il centro simbolico della città. Durante l’attacco degli ultimi giorni il compound governativo è caduto in meno di ventiquattr’ore, è stato il primo palazzo istituzionale della città sul cui tetto è stata issata la bandiera nera. Forse gli storici con la loro prospettiva la considereranno un’unica, lunga guerra, negli stessi posti, in cui i protagonisti si alternano e si danno il cambio tra il 2003 e il 2015 ma in fondo sono sempre gli stessi.

 

Ramadi è la terza capitale regionale a essere perduta, dopo Raqqa in Siria (agosto 2013: non fu presa combattendo contro il governo di Damasco, fu presa a tradimento ai ribelli siriani) e dopo Mosul a giugno 2014. La differenza enorme rispetto all’anno scorso è che questa volta in Iraq si è al picco di uno sforzo nazionale e internazionale contro lo Stato islamico. Prima si poteva dire che il governo iracheno di Nuri al Maliki era debole e corrotto, che l’esercito era abbandonato a se stesso, che lo Stato islamico avanzava nella disattenzione globale. Ora c’è una Coalizione di sessanta paesi, sulla carta, che collabora. Non passa giorno senza un articolo di giornale. Negli ultimi nove mesi gli Alleati guidati dall’Amministrazione Obama hanno bombardato il gruppo di al Baghdadi più di 3.200 volte. Soltanto a Ramadi ci sono stati 170 bombardamenti nell’ultimo mese. L’America e l’occidente hanno investito quattro miliardi di dollari, stanno mandando aiuti, armi, equipaggiamento (sette caccia F-16 arrivano a luglio), inviano consiglieri militari, hanno rafforzato i curdi a nord e hanno tollerato (avevano altra scelta?) che l’Iran facesse altrettanto, al punto che si sono levate accuse di complicità sul campo tra Washington e Teheran. Per ora, tutto questo non ha avuto effetto. Ramadi è stata mangiata quando tutti sapevano che era l’obiettivo più invogliante davanti allo Stato islamico.

 

Il sarcasmo è poco salutare e a buon mercato, e quindi vale soltanto la pena ricordare che il 20 febbraio il Pentagono ha fatto una conferenza stampa per spiegare che l’offensiva irachena per riprendere la città di Mosul sarebbe partita presto, “ad aprile o a maggio”. Sono usciti articoli su pagine importanti di giornali come il New York Times. Venerdì scorso, mentre l’attacco investiva Ramadi, il generale Thomas Weidley che comanda l’operazione Inherent Resolve ha detto in un’intervista che il gruppo islamista in Iraq era ormai “sulla difensiva”. “La coalizione – ha detto Weidley – è pronta al fianco del governo iracheno a Ramadi”. Le sue dichiarazioni sembrano prese da una sceneggiatura un un po’ ingenua in cui lui ha il ruolo del generale tonto e lontano dalla realtà della guerra. Per spiegare quanto è debole lo Stato islamico, dice che bisogna guardare la faccenda “dal punto di vista matematico” e “sottrarre dal livello iniziale tutti i bersagli che sono stati distrutti dai bombardamenti americani, e si vede cosa gli è rimasto”. Oltre a questa formula, Weidley nota che adesso “i combattenti dello Stato islamico non vanno più in parata in luoghi pubblici come una forza militare convenzionale, come facevano un anno fa. Si travestono da curdi o da truppe irachene e manovrano in numeri più piccoli, usando automobili civili”.

 

Questa equazione – lo Stato islamico è quello che era nove mesi fa, meno quello che abbiamo bombardato – non spiega cosa sta succedendo a Ramadi. La città era la capitale del movimento del Risveglio, in arabo al Sahwa, quella resistenza spontanea contro gli estremisti cominciata nel 2006 e poi aiutata molto dagli americani, per sradicare al Qaida in Iraq (l’embrione dello Stato islamico di oggi). Il resto della regione di Anbar è abitato dai cosiddetti “fencesitters”, quelli che stanno seduti sullo steccato, incerti se stare con una parte – il governo e il Sahwa – oppure con l’altra – lo Stato islamico. Cosa pensano oggi i fencesitters a vedere che lo Stato islamico è tornato a Ramadi, da dove era stato cacciato nove anni fa? Nell’ottobre del 2006 la nascita ufficiale del gruppo fu festeggiata con una parata a volto coperto lungo la strada principale della città. Ieri erano di nuovo lì, nella stessa strada. Hanno anche accesso agli archivi dove sono tenuti tutti i dati dei combattenti del Sahwa.

 

Sedici mesi fa il presidente Obama in un’intervista con il New Yorker minimizzò la minaccia dello Stato islamico e disse che era come “la squadra liceale del terrorismo”, e quindi: “Non è che se si mettono la maglia dei Lakers allora giocano anche come loro”. Come hanno fatto a conquistare Ramadi? Come tutti si aspettavano che avrebbero fatto. La città era l’obiettivo più prevedibile di tutto il paese. E’ almeno da novembre che gli uomini di Baghdadi provano ad arrivare al compound governativo con affondi improvvisi e ormai da mesi controllavano il sud della zona abitata. Gli appelli delle truppe locali per avere rinforzi sono rimasti inascoltati, settimana dopo settimana. A metà aprile il Pentagono ha detto al sito di notizie Daily Beast che i rischi per la città erano “esagerati” e che la situazione era sotto controllo. “Non sono previsti cambiamenti”. La notte tra giovedì 14 e venerdì 15 maggio gli islamisti si sono avvicinati ai posti di blocco vestiti da poliziotti e a bordo di Humvees. E’ il loro stratagemma più vecchio. Nel 2012 il loro ritorno in grande sulla scena dopo gli anni della crisi fu celebrato con un video di quaranta minuti che mostrava un raid in cui erano vestiti da poliziotti a Haditha, una città poco a nord di Ramadi. Lo hanno usato innumerevoli volte. Eppure anche questa volta ha funzionato. Dopo i finti poliziotti sono arrivati i camion bomba, dieci, e i bulldozer corazzati per rimuovere sotto il fuoco dei cecchini le barriere di cemento e permettere così agli attentatori suicidi di arrivare più vicino agli obiettivi. Anche questa una tattica vecchia quanto lo Stato islamico. L’agenzia McClutchy ha descritto l’operazione come “un replay di Mosul”.

 

Il governo ha risposto mandando tre reggimenti, che però non sono mai arrivati a Ramadi e si sono fermati nelle tappe vicine, Habbaniyah e Khalidiyah, senza osare entrare. Il 17, domenica, lo Stato islamico ha lanciato l’assalto finale al Comando militare di Anbar, con altre tre autobomba, e questo ha convinto a scappare verso ovest migliaia di abitanti e i soldati. Dai minareti sono cominciati a suonare appelli del gruppo ai cittadini, a non fuggire. I combattenti hanno cercato nelle strade e casa per casa gli uomini del Sahwa, del risveglio, e chi ha un lavoro con il governo. Bussavano, controllavano i telefonini per vedere cosa c’era dentro, immagini, numeri, musica che potesse tradire simpatie politiche. I loro simpatizzanti – o cellule dormienti – hanno indicato gli abitanti che collaborano con Baghdad. Nei primi tre giorni di combattimenti e occupazione, potrebbero essere morte 500 persone.

 

[**Video_box_2**]Gli ultimi a fuggire sono stati i soldati della Divisione d’oro, l’unità d’élite dell’esercito, con la loro uniforme nera e lo stemma rosso, copiati un po’ ovunque nel paese anche da chi non c’entra nulla (ma questa è una cosa irachena, ogni guardia di quartiere ha una maglietta con scritto “Swat”). Ci sono decine di siti dedicati alle gesta eroiche della Divisione d’oro, video musicali, tutta un’epica fatta di fucili d’assalto modernissimi e americani con telescopi e calci mimetici, e di dubbia estetica araba a base di maschere mortuarie, moschettoni che nemmeno Chuck Norris, doppie e triple giberne , stemmi di metallo. Anche la divisione orgoglio del paese ha ripiegato. L’euforia per la conquista di Tikrit a fine marzo è già passata.

 

La campagna dello Stato islamico per prendere Ramadi era intitolata a un loro leader dichiarato morto da poco, Abu Ayman al Iraqi. Ex uomo dell’intelligence baathista, fedelissimo di Saddam, s’era riciclato come altre decine di suoi commilitoni dentro il jihad, dopo la dissoluzione dell’esercito iracheno da parte dell’amministrazione temporanea americana nel 2003. Il giornalista americano Dexter Filkins venerdì sul New Yorker l’ha definita la decisione più disastrosa di sempre presa dagli americani in Iraq. Negli anni scorsi Abu Ayman è finito a combattere in Siria, dov’era “Wali”, governatore, dello Stato islamico a Latakia, regione della costa. Nel luglio 2013 uccise con un colpo di pistola in faccia un leader dei ribelli siriani, un eroe locale, che protestava contro i posti di blocco imposti nella zona dallo Stato islamico. Ne seguirono infinite discussioni e richieste di chiarimenti presso la locale corte shariatica, al che lui rispose: “Io non voglio la sharia islamica, io voglio la legge della giungla”. La frase è rimasta famosa tra chi, anche in ambienti islamisti, critica lo Stato islamico con argomenti religiosi. Non si è mai vista la sua faccia, se non in una vecchia foto carceraria forse non autentica di quando era prigioniero degli americani assieme a Baghdadi. In un video riceve il giuramento di fedeltà al gruppo da Deso Dogg, un ex rapper tedesco convertito all’islam. La scena parla da sé: un musicista ribelle di Berlino e un ex uomo del Baath, sotto lo stesso drappo nero. Abu Ayman al Iraqi è diventato “Wali” della regione di Anbar, è stato ucciso, ha avuto l’onore di una campagna a lui dedicata.

 

L’unica speranza per il governo di Haider al Abadi ora è contrattaccare subito, oggi, questa settimana, prima che lo Stato islamico si trinceri dentro alla città. Secondo notizie ufficiose ieri l’Amministrazione Obama ha dato il suo consenso all’uso delle milizie sciite, finora tenute lontane da Ramadi per non alzare le fiamme della guerra tra sunniti e sciiti. E’ il segno di una misurata disperazione. Ora già tremila volontari sciiti sono alle porte della capitale anbarina e scalpitano anche se, dicono, gli abitanti di Ramadi non meritano la liberazione perché sono in maggioranza “complici dello Stato islamico”. Da Teheran è arrivato il ministro della Difesa, il generale Hossein Dehghan, per discutere cosa fare dopo la disfatta. Sarebbe stato meglio non avere mai perduto Ramadi, e non essere obbligati, dopo, a trasformare la riconquista in quello che gli abitanti di Anbar temono (quasi) di più: un’operazione delle unità paramilitari sciite.

 

* tranne che per i giornali italiani, che grazie a informazioni di cui dispongono soltanto loro titolano senza virgolette: morto il numero due di Isis.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)