Il comico inglese Russell Brand (foto LaPresse)

Brand, comico simil Grillo britannico, e il grande flop pro Miliband

Nicoletta Tiliacos
Paese che vai, simil Grillo che trovi. Quello inglese si chiama Russell Brand, e lo Spectator ha scritto che “the biggest loser of the night”, il vero perdente delle elezioni britanniche, è proprio lui.

Roma. Paese che vai, simil Grillo che trovi. Quello inglese si chiama Russell Brand, e lo Spectator ha scritto che “the biggest loser of the night”, il vero perdente delle elezioni britanniche, è proprio lui. Il giullare anti casta made in England, astensionista da sempre, alla vigilia del voto, dopo essersi prodotto in un’intervista apologetica a Ed Miliband, aveva invitato a sorpresa i suoi dieci milioni di follower su Twitter a votare il candidato laburista, con i risultati che si sono visti (trionfo di Cameron, dimissioni di Miliband, Labour a pezzi).

 

Quarant’anni, giovinezza rock tra alcol e droghe, conversione alla sobrietà grazie alla meditazione trascendentale, Brand è un attore comico e intrattenitore radiofonico e televisivo di grande popolarità. Dal 2009 è diventato anche l’idolo degli arrabbiati inglesi da social network. Tra un articolo sul Guardian e un altro sul New Statesman, ha pubblicato il libro manifesto “Revolution”, nel quale invita all’insubordinazione contro il capitale, contro la politica ufficiale, contro lo strapotere dei media di Murdoch: la verità sul mondo la sa raccontare solo lui, Russell Brand (vi ricorda qualcuno?).

 

Nel frattempo c’è stato anche il matrimonio con l’attrice e cantante Katy Perry. Molto breve – poco più di un anno – ma mediaticamente intenso e capace di aumentare ulteriormente le quotazioni del brand Brand. Il quale le ha messe a frutto sul suo  personale canale YouTube, The Trews, con più di trecento video prodotti e sempre molto visualizzati. Così è stata lanciata anche la famosa intervista a Miliband, trasformatasi in una dichiarazione di aperto sostegno da parte dell’astensionista momentaneamente pentito Brand, forse commosso dal fatto che il leader laburista avesse trovato il tempo di andare fino a casa sua per registrarla. Di fronte a quel miracolo, il Guardian si era sbilanciato fino a prevedere inauditi effetti pro Labour sul pubblico che solitamente segue RustyRockets (è l’account Twitter del comico engagé). Quelle ottocentomila persone che avevano visualizzato l’intervista facevano sognare, e chissà che il pubblico di Brand, solitamente sordo al richiamo dei partiti tradizionali, non riservasse magnifiche sorprese: “I Tory hanno di che preoccuparsi”, ha sentenziato il Guardian all’uscita dell’intervista. Come non detto. Ancora una volta si deve constatare: piazze – anche virtuali – piene, urne vuote. I cliccatori furiosi, i disgustati dalla politica e dalla casta, non hanno affatto seguito in massa Russell Brand nella cabina elettorale. Comunque non hanno votato Miliband. Lo Spectator può così perfidamente notare che “queste elezioni hanno fatto a Brand quello che le precedenti avevano fatto a Nick Clegg: hanno dimostrato che i suoi poteri persuasivi sulla gente comune non sono altro che un fantasma ‘guardianista’”. Il magazine online ricorda che nel 2010 in molti avevano visto nel lib-dem Clegg l’Obama britannico, mentre oggi il suo partito risulta quasi azzerato, e del tutto irrilevante. Rievoca poi con beffarda soddisfazione le dichiarazioni di vari columnist del Guardian, incantati – anzi, ipnotizzati – da quell’incontro così promettente tra Brand e Miliband. Il giovane Owen Jones, per esempio, aveva scritto che “la strada migliore tra Miliband e i giovani elettori” poteva proprio essere Russell Brand. Né Jones né altri, scrive ancora lo Spectator, si sono chiesti se c’era qualcosa che non andava, nel fatto che il candidato premier laburista non avesse a disposizione niente di meglio, per parlare ai giovani, di quello “sgangherato capellone quarantenne che riempie i tabloid e che non azzecca una gag decente dal 2008”.

 

[**Video_box_2**] Lo Spectator, schiettamente conservatore, si rallegra del flop di Brand, la cui capacità di “mettere tutti in fila dietro a Miliband si è rivelata una pura spacconata”. Ma la constatazione che fa alla fine riguarda tutta la politica (non solo quella inglese), e in particolare la tendenza a spingere in prima linea le celebrità, nella speranza che convincano i non convincibili, primi tra tutti i militanti da social network. “E’ esilarante: le stesse persone che accusano i giornali di Murdoch di lavare il cervello dei loro lettori per convincerli a votare conservatore, hanno creduto che una celebrità dotata di webcam e di un’attiva presenza su Twitter potesse con uno schiocco di dita ottenere valanghe di voti per i laburisti”. Una sinistra che anche solo per un giorno ha seriamente creduto che RustyRockets avrebbe fatto la differenza non è solo separata dal popolo: è senza speranza.