Il primo ministro David Cameron durante un’intervista con Jim Waterson, vicedirettore di Buzzfeed Uk, nel marzo scorso a Londra (foto LaPresse)

Nella cuccia dei gattini

Paola Peduzzi
Se pensate che farsi intervistare da un diciannovenne sia facile, non sapete cos’è Buzzfeed. Le elezioni inglesi viste da qui sono un misto di ormoni, divertimento, teleferiche e sangue.

Londra. Se li chiami “quelli del sito dei gattini” alzano le spalle con un sorriso, i gatti sono dappertutto, anche fuori dall’online, nessuno si vergogna, nessuno pensa che sia umiliante occuparsi di gatti, ce n’è uno su un poster nella sala riunioni principale, una libreria rossa a forma di gatto in un’altra saletta, una borsa di tela con scritto “Le 16 lezioni politiche che puoi imparare da un gatto”: tutto fa pensare che qui, in un openspace a Soho, a Londra, se la ridano quando sentono pomposi giornalisti dei media tradizionali liquidare Buzzfeed con battute sprezzanti sui felini.

 

Buzzfeed pubblica foto di cuccioli, video, notizie dell’ultim’ora, e soprattutto liste su qualsiasi tema, tanto che il cosiddetto “listicle” è diventato un genere (ho cercato di scrivere questo articolo a punti, non sono arrivata nemmeno al terzo: è da quando lessi “Alta fedeltà” di Nick Hornby, vent’anni fa, che ho consapevolezza della superiorità antropologica di chi sa fare elenchi e classifiche). Si definisce un’azienda di “social news” e intrattenimento, il core business è il “buzz”, le dicerie, il ronzio, quello di cui si parla, si rivolge a un target giovanissimo e si è messa a raccontare anche la politica.

 

Tutto è cominciato nella casa madre in America quando, prima delle presidenziali del 2012, è stato assunto Ben Smith, giornalista di Politico diventato famoso durante le primarie democratiche del 2008 e da allora sempre più noto e influente. Con l’arrivo di Smith come editor in chief di Buzzfeed (tutti si chiedevano che cosa c’entrasse l’astro del giornalismo politico con i gattini, lui disse che la scelta gli era sembrata “naturale”, come se fosse una questione di destino), assieme alle 21 ragioni per cui indossare il reggiseno è inutile o alle 14 scene horror più famose del cinema hanno iniziato a comparire storie politiche godibili, con fonti diverse dall’informazione mainstream, realizzate da reporter con i “boots on the ground” che hanno dimostrato presto di essere rilevanti. I leader politici hanno così voluto immergersi nel buzz, si sono fatti intervistare per mostrarsi giovani e giovanili, conquistare quel target di ragazzi e ragazzini che spesso nemmeno hanno ancora diritto di voto, sfuggenti e imprevedibili, con effetti a volte disastrosi, ma con la sicurezza di essere stati almeno notati (più spesso presi in giro).

 

Nel 2013, Buzzfeed è arrivato a Londra con tre reporter, un format ritenuto di successo negli Stati Uniti, un modello di business da replicare, un ufficio piccolo e un punto interrogativo: quel che funziona là funzionerà anche qui? E funzionerà anche altrove?
La risposta è in questa redazione cool in Argyll Street, dietro a Oxford Circus, ascensori con i vetri e tanta luce, dove ogni dettaglio è perfettamente curato, dai cuscini a forma di cracker e bagel nell’angolo cucina (dove c’è ogni genere di snack desiderabile) alle file di scrivanie piene di schermi da cui sbucano peluche, scritte, foto, teste giovanissime – sulle pareti ci sono cartelli gialli e rossi, la freccia a zig zag che è il simbolo di Buzzfeed, le scritte “win”, “lol”, “wtf”, “omg”, “cute” che sono le espressioni più utilizzate sul sito. La fila vicino alla cucina ospita i giornalisti che si occupano di politica: quando alzano gli occhi vedono una foto di Nicola Sturgeon, la dama degli indipendentisti scozzesi che ha cambiato acconciatura più volte di Hillary e che sta facendo impazzire, con la sua ascesa che sa di dominio in Scozia, la scena britannica che va verso le elezioni. La redazione conta più di 30 persone. “Ne stiamo assumendo altre”, dice Alice Suh, che si occupa della comunicazione e sorride sempre, l’obiettivo è arrivare a una cinquantina di redattori entro l’anno, si sta rafforzando anche la sezione investigativa, guidata da Heide Blake. I gattini convivono con le storie lunghe, gli scoop, le interviste, e sembrano stare molto comodi. Perché non bisogna mai sottovalutarli, i giovani. “Sono molto intelligenti – dice Jim Waterson, vicedirettore di Buzzfeed Uk, responsabile della sezione politica, venticinque anni (ne dimostra quattordici), andatura dondolante, analisi precise – Se un diciannovenne dovesse farmi un’intervista sarei pure io in difficoltà”. Per conquistarli, questi giovani, devi saper raccontare le storie in modo divertente – “fun” è la parola che più ricorre nella nostra conversazione, e, a parte la stanchezza data da una campagna elettorale più brutale che eccitante, sembra che il “fun” sia anche molto quello di Waterson. Lui viene dal giornale City Am, un mondo talmente lontano da questo attuale che Waterson non sa da che parte cominciare per spiegare quante differenze ci sono tra là e qui. Certo è che a Buzzfeed la rete è considerata una risorsa, i social sono un Eldorado, le “social news” sono un obiettivo di business.

 

Buzzfeed è stato fondato negli Stati Uniti nel 2006 da Jonah Peretti (che è anche cofondatore dell’Huffington Post), oggi quarantenne, formatosi al Media Lab del Mit, e nasceva dall’idea di aggregare i contenuti più “liked” e condivisi della rete: “Ottimizzando la ricerca, Peretti sapeva che cosa le persone volevano prima che lo sapessero persino loro”, come ha scritto David Carr nel 2014 in un articolo dal titolo “Significant and Silly” che, come accadeva sempre con Carr, giornalista del New York Times scomparso di recente, diceva già tutto. Il mix tra gatti e contenuti più seri ha permesso di attirare molti investimenti, si dice che oggi l’azienda valga un miliardo di dollari (è una stima del venture capital Andreessen Horowitz, che dall’anno scorso è un investitore di Buzzfeed), e il modello di business prevede il cosiddetto “native advertising”: non ci sono banner o spazi pubblicitari definiti, ci sono contenuti sponsorizzati, tendenzialmente listicle, che saranno poi condivisi. Di recente Buzzfeed America è finito in un piccolo scandalo proprio per questa commistione tra pubblicità e contenuti, quando è stato accusato di aver cancellato dei commenti critici nei confronti del Monopoly e dei prodotti Dove, investitori di Buzzfeed. I post sono poi stati ripubblicati, ma nel frattempo è dovuto intervenire lo stesso Ben Smith, dicendo che non c’erano state pressioni dalle aziende ma che comunque aveva gestito male la vicenda. Un’inchiesta interna ha infine segnalato che sono stati cancellati più di mille post, per problemi tecnici soprattutto, per problemi di copyright anche, e tre per “lamentele degli investitori pubblicitari”. I confini tra il “native advertising” e i contenuti sono invero piuttosto labili, è difficile dire se i quindici modi più creativi per mangiare un hamburger siano una pubblicità o soltanto un articolo di costume.

 

Secondo i dati raccolti da Quantcast, Buzzfeed ha avuto ad aprile circa 18 milioni di utenti unici: nell’aprile dell’anno scorso erano 13,4 milioni. Di recente è stata assunta una nuova manager per la pubblicità a livello europeo, Kate Burns, che arriva da Google, e ha come obiettivo, nel 2016, di generare ricavi pari almeno a un quarto di quelli negli Stati Uniti. La comunicazione con l’America è continua: si parla attraverso Slack, l’app regina tra i gruppi di lavoro, e lo staff americano viaggia molto per i paesi in cui Buzzfeed è presente, così come esiste anche il flusso contrario o trasversale: alcuni membri del team inglese sono andati per un breve periodo di tempo ad aiutare i colleghi tedeschi. Come ha spiegato il direttore di Buzzfeed Uk, Luke Lewis, “l’obiettivo non è soltanto quello di essere uffici satelliti rispetto all’America, ma quello di essere ognuno un centro di gravità per se stesso”. Il format è stato replicato nel Regno Unito e poi in Germania, Francia, Spagna, India, Australia, Brasile e, da ultimo, Messico.

 

Le news restano il “killer asset”, non c’è motivo di assumere persone che perdono tempo a commentare o rielaborare il lavoro degli altri, ha raccontato Peretti, vogliamo avere notizie per primi, ed è per questo che la sezione politica – che si è arricchita con reporter giovani, che sapessero maneggiare tanto i social quanto le notizie – e quella internazionale convivono con le quattordici foto più belle di sorelline minori.

 

[**Video_box_2**]A Londra il test dell’esportazione e dell’adattamento del modello sulla copertura politica è arrivato subito, con la campagna elettorale in vista del voto del 7 maggio. Non ci sono dati o infografiche, questo è un ambito in cui Buzzfeed non si mette a competere, ci sono giornalisti in giro che cercano di raccontare storie, e magari fare uno scoop. “Ne abbiamo fatto uno piccolo ma significativo, ne siamo molto orgogliosi – racconta Jim Waterson – Abbiamo inviato un giornalista a un’asta di fundraiser del Partito conservatore: ha ottenuto la lista degli oggetti messi all’asta e ha scoperto che i donatori hanno speso 220 mila sterline per un fine settimana in un castello spagnolo del Diciassettesimo secolo e 210 mila sterline per una statua di Margaret Thatcher. Nulla di esplosivo, ma comunque diverso da quello che facevano gli altri, ed è esattamente quello che vogliamo”.
Se quel che scrivi viene condiviso, inizi a diventare rilevante, è il principio della viralità. E’ accaduto anche con il fenomeno del “Milifandom”, le ragazzine che su Twitter si sono messe a dire quanto il leader del Labour, Ed Miliband, fosse sexy e cool: “E’ roba nostra”, dice Waterson. Buzzfeed ha intercettato per primo questo “buzz” e l’ha trasformato in un fenomeno elettoral-internettiano che è poi diventato l’oggetto di articoli sui giornali (ed Ed Miliband ha anche risposto su Twitter a una di queste adolescenti). “Essere al posto giusto nel momento giusto, questo è importante, ma là fuori ci sono centinaia di giornalisti e tutti sono a caccia di storie, quindi non è facile”, continua Waterson: molti, anche tra i colleghi, dicono che quello di Buzzfeed non è vero giornalismo, “ma nessuno ce lo dice in faccia”, assicura Waterson. Ora il vantaggio è che sono loro, i leader politici, a voler parlare con Buzzfeed. E’ questa la svolta, e vedere questi personaggi confrontarsi con una piattaforma quasi incomprensibile se hai più di trent’anni è parecchio divertente: David Cameron, il premier britannico, ha prima detto di essere a “The Buzzfeed” e poi l’ha definito “digital paper”, facendo ridere tutti, perché qui di paper non c’è mai stato niente (e pure il “the” non esiste).

 

Gli endorsement non sono nemmeno contemplati da queste parti, e mentre tutti si stanno interrogando su che cosa farà Rupert Murdoch e sui vari posizionamenti dei media tradizionali, l’unica domanda alla quale Waterson risponde è: qual è la campagna più divertente da seguire? (Di tradizionale questo giornalista ha la lamentela: sottolinea come fanno tutti che questa elezione è noiosa e “molto controllata, l’obiettivo è evitare disastri, sono tutti in fase di ‘damage control’”). Risponde che è quella del Labour, non per una preferenza politica, ma perché “è una storia affascinante, la campagna elettorale era un rottame, e ora, all’ultimo, ‘accidentally’ Ed Miliband può diventare primo ministro. Nessuno a Westminster o tra i commentatori pensava che potesse davvero accadere”. Il momento più sorprendente è stato però un altro, quello assieme a Nick Clegg, il vicepremier liberaldemocratico che, se vince il suo seggio, rischia di essere ancora una volta cruciale per le alleanze post voto. Waterson, assieme ad alcuni giornalisti, è stato invitato dalla campagna elettorale dei Lib-Dem appena dopo Pasqua a “una pausa” da trascorrere insieme. Si trattava di un specie di corso di sopravvivenza e tutti, compreso Nick Clegg, si sono legati con dei moschettoni rossi e blu (“il giallo, che è il colore dei Lib-Dem, non c’era”) ai fili di sicurezza e si sono inoltrati nel bosco ad attraversare ponticelli. “Un momento di divertimento puro, di relax”, dice Waterson e Clegg si è anche lanciato con una teleferica, “a un’altezza considerevole”. Anche se non era possibile girare un filmato, “non capita tutti i giorni di vedere il vicepremier volare allegramente a dieci metri da terra e atterrare con il sedere su un cumulo di legnetti”.

 

Il divertimento, se lo vai a cercare, riesci a trovarlo, ma se le sorprese, di qui al voto, non saranno probabilmente molte, poi invece ci sarà di che condividere e far diventare virale, “perché non è previsto un risultato soddisfacente per nessuno, e saranno tutti molto arrabbiati”. Gli occhi luccicano, gattini e sangue, “sarà un grande caos, sarà bellissimo”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi