Ed Miliband, leader del Labour britannico (foto LaPresse)

Il sangue, i migranti e il mondo secondo il laburista Ed Miliband

Paola Peduzzi
“La comunità internazionale, incluso il governo britannico, ha qualche responsabilità per quel che sta accadendo in Libia, credo sia innegabile”, ha detto Ed Miliband, leader del Labour britannico e candidato premier alle elezioni del 7 maggio.

Londra, dal nostro inviato. “La comunità internazionale, incluso il governo britannico, ha qualche responsabilità per quel che sta accadendo in Libia, credo sia innegabile”, ha detto Ed Miliband, leader del Labour britannico e candidato premier alle elezioni del 7 maggio, parlando dal podio della Chatham House, uno dei think tank più influenti del mondo anglosassone. I giornalisti presenti si sono scatenati: Mr Miliband, sta dicendo che il premier conservatore, David Cameron, “ha le mani insanguinate”?, hanno chiesto più o meno tutti i cronisti che hanno avuto diritto di domanda (il pubblico presente sbuffava, possibile che chiedete sempre la solita cosa? “Che spreco di tempo”, ha commentato una bella signora guardando il “press corp” con un certo disprezzo).

 

Fin dalla mattina i conservatori inalberati, che la missione in Libia l’hanno guidata assieme ai francesi e ad altri alleati riluttanti come l’Italia, ripetevano che Miliband stava strumentalizzando una tragedia. “Nonsense – ha spiegato Miliband – Ma al popolo britannico bisogna dire che c’è una grande questione che dobbiamo affrontare, ed è quella di imparare le lezioni della guerra in Iraq nel 2003. Il problema è che abbiamo ripetuto in Libia lo stesso errore di allora, perché non abbiamo fatto alcuna pianificazione per il post conflitto”. Allora sta dicendo che è colpa di Cameron se i migranti muoiono in mare?, incalzavano di nuovo i cronisti, e lui ripeteva che c’erano stati degli errori “incontestabili”, ma da lì a dire che il governo conservatore è “personalmente responsabile” delle morti in mare ce ne passa.

 

Tutto d’un tratto, in questa sala seminterrata della Chatham House – di fronte a un pubblico “non selezionato” dai capi della comunicazione come ormai è costume, dice il vicino di sedia, il gigantesco Robert Hutton di Bloomberg –, le contraddizioni della sinistra britannica in politica estera si sono materializzate. Miliband era a favore dell’intervento in Libia, nel 2011, per ragioni che ha ripetuto più volte e che riguardano “la minaccia immediata” posta da Gheddafi e la volontà condivisa e multilaterale di intervenire – allora usò l’espressione “giusta causa” che rievocava le guerre giuste dell’interventismo liberal degli anni Novanta. Poi però il dopoguerra non è stato gestito in modo corretto, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Quando la parola è stata data al pubblico – “agli esperti”, ha detto Miliband, poi si è voltato verso i giornalisti, “esperti di politica estera volevo dire”, sia mai che vi sentiate offesi – un signore ha chiesto: “Perché in Libia sì e in Siria no?”, che è una domanda che molti si sono chiesti in questi anni di guerre civili in cui era necessario e giusto intervenire e guerre civili che invece bisognava lasciar sfogare senza troppe ingerenze. “Ma noi eravamo al college insieme”, ha detto Miliband, e approfittando dell’atmosfera improvvisamente ridanciana, ha preso altro tempo: “Che fine hai fatto, di che cosa ti occupi?”, tutti ridevano, il leader laburista raccoglieva le idee. Perché la risposta non poteva che essere contraddittoria, se sei a favore dell’intervento in Libia non puoi non voler intervenire contro un dittatore che usa le armi chimiche contro il suo popolo, come ha fatto il rais siriano Bashar el Assad. Invece nel 2013, Miliband votò contro la missione a Damasco, perché “contrastare l’utilizzo di armi chimiche con un blitz militare potrebbe non essere efficace e perché mancava la legittimazione internazionale”, i cinesi e i russi che si erano lasciati convincere a un intervento mirato in Libia, pentendosi presto, facevano resistenza al Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro una missione in Siria. “Non tutte le guerre sono uguali – ha detto Miliband – e dire ‘qualcosa deve essere fatto’ non è una strategia di politica estera”.

 

La guerra in Iraq pesa sul Labour britannico più che sulle altre sinistre europee, per ovvie ragioni. Smarcarsi da quell’avventura che il tempo ha reso ancora più imperdonabile di quanto già non apparisse all’opinione pubblica nel 2003 è diventata una priorità. Anche in Italia è così, molti leader di sinistra ripetono che se c’è una cosa che si è imparato in Iraq è che le guerre non servono a molto, bisogna pianificare altro. Miliband non esclude del tutto l’uso della forza, quando dice che il paese sarà sicuro lo fa con il piglio del commander in chief, ma poi inizia a smantellare passo a passo quella che era la visione interventista del premier laburista Tony Blair. Il Regno Unito, dice Miliband, deve “reengage in the world”, non bisogna fare passi indietro, come invece fa il governo di Cameron con il suo “isolazionismo miope”: ogni parola pronunciata è in funzione di una attacco al governo, è un evento della campagna elettorale questo, il primo discorso di politica estera del candidato laburista, non un panel in un think tank. E’ al contrario necessario, dice Miliband, impegnarsi per difendere la sicurezza e i valori dell’occidente: vanno però privilegiati una visione multilaterale e gli strumenti del softpower (cita in questa categoria anche la Bbc, e poi sono stati due giornalisti della Bbc che gli hanno chiesto ripetutamente: è colpa di Cameron se i migranti muoiono nel Mediterraneo?, che ingratitudine). Soprattutto è importante rimanere dentro all’Unione europea, perché altrimenti il Regno Unito “sarà sempre più debole”. La visione unionista, che riguarda anche il rapporto sempre più complicato con gli scozzesi che corrono forte nei sondaggi e avranno un peso se si dovrà formare una maggioranza di governo, è la via che Miliband cerca di percorrere per dare un messaggio rassicurante anche al mondo del business: restare nell’Ue – riformata, ovviamente, altra via in Inghilterra non è contemplata – ci rende forti. Nella City che pende tremendamente a favore dei conservatori e spesso alimenta la paura di un eventuale cambiamento imposto dai laburisti, il discorso europeista riceve ancora qualche applauso e sostegno: Hsbc, la più grande banca del paese, ha appena segnalato il “grave rischio” di un’eventuale uscita del Regno Unito dall’Ue. Sacche di euroscetticismo sempre più vaste si sono create anche nel mondo del business, che guarda che cosa accade alla Grecia per vedere che effetto fa, ma la “forza dell’unione”, interna ed europea, continua ad avere consenso, qualche sorriso lo strappa, almeno in questo pubblico ristretto, che pure forse non è poi così rappresentativo.

 

[**Video_box_2**]Fuori dalla Chatham House un gruppo di attivisti aspettava il leader laburista. Ragazzi e ragazzi si sono infilati delle maschere di carta con la faccia di Nicola Sturgeon, leader del partito scozzese Snp, che a seconda dell’interlocutore è la donna più pericolosa del paese, o la più brava, e mostravano dei cartelli che dicevano: “Siamo d’accordo con te, più tasse, più spese, più debito”. Qualcuno dice che i ragazzi sono emissari dei conservatori, ormai in questa fase di campagna elettorale vale solo lo spin, anche una decina di ragazzi in maschera può rovinare la giornata a un candidato premier.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi