La capacità unica del capitalismo di rigenerarsi

Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno escogitato modi completamente diversi per tornare a fare quello che sanno fare meglio, profitto. Storia di due banche di Wall Street diversamente profittevoli.

New York. Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno escogitato modi completamente diversi per tornare a fare quello che sanno fare meglio, profitto. Lunedì il ceo di Morgan Stanley, Jason Gorman, ha presentato una delle migliori trimestrali di sempre, con 9,9 miliardi di dollari di entrate e utili per 2,3 miliardi, il 59 per cento in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La performance ha bruciato le già generose stime degli analisti. Qualche giorno prima Goldman aveva polverizzato le aspettative pubblicando guadagni per 2,84 miliardi, un incremento del 40 per cento del volume di investimenti che non è trascinato da qualche irripetibile congiuntura. “Non c’è niente di strano alla base di questo fenomeno. Il trading è forte, l’investment banking anche”, ha spiegato l’analista finanziario Jeff Harte, descrivendo i tratti di un “new normal”, non di una prestazione eccezionale. Per arrivare a questi risultati le banche hanno rovesciato la loro vocazione originaria. Prima della crisi Morgan Stanley era la banca più esposta e rischiosa di Wall Street, lavorava nelle aree di trading di confine con prodotti finanziari ultracomplessi e volatili. Ora viaggia nelle acque meno perigliose dell’investment banking, gestisce fondi di famiglie miliardarie che vogliono consolidare il patrimonio con la diversificazione, senza speculazioni ad alto rischio.

 

L’acquisizione di Smith Barney, branca di Citigroup, è stato il culmine di un percorso “per sostenere l’unità che si occupa degli affari più prevedibili”, ha scritto il Wall Street Journal. Goldman ha navigato in direzione opposta: era un’istituzione relativamente prudente che si è gettata a capofitto nei settori più rischiosi del business finanziario, facendo crescere il proprio valore a rischio da 63 a 81 milioni di dollari nell’ultimo trimestre.

 

E’ la storia di due istituti che prendono direzioni opposte per massimizzare i profitti, ma è anche la rappresentazione in scala del sistema capitalistico che trova all’interno del proprio metabolismo la linfa per rigenerarsi, per adattarsi alle regole messe in piedi per ripararsi dalle infiltrazioni tossiche uscendo con quel mix di solidità e flessibilità che è descritto dal concetto di resilienza, parola ricorrente nell’ambiente finanziario in cerca di un nuovo inizio. “Goldman Sachs e Morgan Stanley sono più resilienti ora di quanto fossero prima della crisi”, ha spiegato al Wall Street Journal l’analista Mike Mayo. Entrambe le banche hanno pagato multe da decine di miliardi di dollari per i pasticci finanziari commessi durante la crisi, ma non hanno mai smesso di cercare modi creativi per rivitalizzare il business.

 

Per gli ideologici adepti dell’ortodossia pikettiana sui mali strutturali del capitale, la resilienza di Goldman Sachs e Morgan Stanley è la prova che lo spirito del “greed” trova sempre un modo per aggirare le barriere protettive, una specie di corrotta astuzia della ragione del mercato, in termini parahegeliani. Per tutti gli altri è la testimonianza di un sistema vitale, reattivo, che trova in sé gli anticorpi per sopravvivere e per continuare a offrire alternative valide alle stagnanti richieste di imbrigliare il sistema con i lacci della legge.

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