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Nel Partito repubblicano americano Reagan non è più un mito? La congiura di Rubio allarma la destra ortodossa

Il Wsj molla uno schiaffo a Rubio che non è che il frammento di una sfida epocale intorno all’identità del Partito repubblicano, tutta giocata sull’eredità ideologica di Reagan, che a seconda delle correnti va adorata senza toccare nemmeno una virgola, va adeguata ai tempi, oppure va demolita e superata una volta per tutte

New York. E’ in atto una congiura per uccidere il mito di Ronald Reagan, e fra i cospiratori c’è anche il candidato alla presidenza Marco Rubio. Questa è l’accusa mossa qualche giorno fa dalle pagine degli editoriali del Wall Street Journal, tempio dell’ortodossia conservatrice in materia economica. Dopo un’apertura protocollare al candidato giovane e antidinastico, il quotidiano attacca le sue proposte in materia fiscale: “Vuole timide riduzioni delle tasse, lasciando l’aliquota massima al 35 per cento su guadagni relativamente modesti. Il punto centrale del suo piano è un nuovo credito d’imposta, 2.500 dollari per ogni figlio”. Un inaccettabile tradimento dell’ortodossia reaganiana che fa di Rubio il “più visibile alleato della ‘nuova’ idea repubblicana secondo cui l’agenda di tagli fiscali di Reagan è un vicolo cieco politico, e il partito ora deve redistribuire le entrate direttamente alle famiglie della middle class”.

 

E quando i custodi dell’ortodossia dicono redistribuzione tirano in ballo la madre di tutte le polemiche contro Barack Obama, che della socialdemocrazia welfarista in stile europeo è il campione, un radicale distruttore delle conquiste dell’economia supply-side. Lo schiaffo mollato a Rubio non è che il frammento di una sfida epocale intorno all’identità del Partito repubblicano, tutta giocata sull’eredità ideologica di Reagan, che a seconda delle correnti va adorata senza toccare nemmeno una virgola, va adeguata ai tempi, oppure va demolita e superata una volta per tutte, magari spiegando che le ricette che andavano bene per gli anni Ottanta non necessariamente funzionano anche oggi. La corrente dei “reformicon”, i riformisti conservatori, è quella che da tempo sta architettando il golpe al palazzo reaganiano. I suoi adepti sono quarantenni spesso secchioni, a volte perfino cool, che ruotano attorno alla rivista National Affairs e hanno uffici all’American Enterprise Institute. L’idea dei reformicon è che non tutti i problemi economici si possano risolvere con il taglio delle tasse. Non basta nemmeno affamare la bestia. Nella struttura economica e sociale di oggi una ricetta conservatrice, dicono, deve impiegare anche altri strumenti, ad esempio gli sgravi fiscali per le famiglie, anche a costo di essere accusati dai padri del sommo reato di redistribuzione.

 

[**Video_box_2**]Reihan Salam, autore insieme a Ross Douthat di “Grand New Party”, dice che all’origine della disputa c’è un errore di prospettiva: includendo anche le tasse statali e locali, l’aliquota massima negli Stati Uniti oggi è al 40 per cento, mentre era al 70 quando Reagan è diventato presidente, ovvero una ricetta da Reaganomics produrrebbe effetti sulla crescita molto meno rilevanti di quelli di allora. Ma i difensori dell’ortodossia non vogliono sentire ragioni. L’interpretazione originalista dei libri sacri di Reagan non si discute, e qualunque tentativo va automaticamente bollato come un’eresia, venisse anche da un giovane senatore che per anagrafe e doti carismatiche potrebbe pure rischiare di raccogliere consensi. Molto nel panorama repubblicano odierno dipende da un presidente arrivato alla Casa Bianca 34 anni fa.
Twitter @mattiaferraresi