Dei poster con la foto di Ali Khamenei (foto LaPresse)

Se il deal nucleare piace ai falchi di Teheran qualcosa non quadra

Redazione
L’establishment iraniano si ricompatta grazie agli accordi. L’endorsement più che sospetto delle Guardie rivoluzionarie

Roma. L’accordo preliminare di Losanna sul nucleare iraniano, siglato la settimana scorsa, piace anche ai falchi di Teheran. Sul New York Times di ieri, Thomas Erdbrink ha scritto che “fin dalla Rivoluzione islamica nel 1979, i falchi iraniani sono stati liberi di scendere in strada e protestare contro ogni forma di compromesso con l’occidente, e soprattutto con gli Stati Uniti”. Ma dopo Losanna le cose stanno andando diversamente. Martedì, quando un piccolo gruppo di “hard liners” si è messo a protestare contro i termini dell’accordo nucleare davanti al palazzo del Parlamento, “il ministro dell’Interno iraniano ha condannato la dimostrazione come illegale, perché i manifestanti non avevano ottenuto un permesso”. “Forse è la prima volta”, continua Erdbrink, “che i più conservatori sembrano disconnessi dalla struttura di potere”. Secondo l’agenzia semuifficiale di stampa Mehr, anche il generale Mohammad Ali Jafari, comandante delle Guardie rivoluzionarie, ha dato la sua benedizione all’accordo, dicendo che “la nazione iraniana e le Guardie rivoluzionarie iraniane ringraziano questi bravi negoziatori per i loro sforzi onesti e per il jihad politico, e per la loro resistenza davanti alle red line”. In seguito questa dichiarazione è stata parzialmente corretta, scrive Erdbrink, ma l’idea che l’establishment iraniano, anche quello più conservatore, abbia stretto i ranghi intorno al deal è piuttosto solida.

 

Narges Bajoghli, ricercatore dell’Università di New York che ha collaborato con molte testate, tra cui il Guardian, la Bbc e l’Huffington Post, scrive su LobeLog, un sito che si occupa di politica estera, che sia tra le Guardie rivoluzionarie sia tra il corpo paramilitare dei Bassij il sostegno al deal nucleare tra l’Iran e l’occidente è molto alto. Dopo Losanna, scrive, “lo spettro dei conservatori aleggiava sia sull’Iran sia sugli Stati Uniti. I giornalisti indicano nelle Guardie rivoluzionarie e nei Bassij delle forze potenziali che potrebbero distruggere il lavoro del presidente Hassan Rohani e del ministro degli Esteri Javad Zarif”. Ma in realtà la maggioranza dei membri di questi gruppi ha molto interesse ad avere relazioni aperte con l’occidente. Il fatto, dice Bajoghli, è che anche le frange più estreme dell’establishment iraniano sono stremate dalle sanzioni e dall’isolamento internazionale, e che anche le posizioni granitiche delle Guardie rivoluzionarie non sono granitiche quanto sembrano.

 

Per spiegare questa situazione Bajoghli parte dagli anni Novanta, quando dopo l’elezione a presidente di Mohammad Khatami, visto da molti come un riformista, la Guida suprema Ali Khamenei “rafforzò gli elementi più conservatori tra le Guardie rivoluzionarie e orchestrò una pesante repressione contro i riformisti. (…) Il consolidamento del potere da parte da parte dei falchi aumentò durante il primo mandato della presidenza Ahmadinejad”.

 

Le contestate elezioni del 2009 e l’emersione della Rivoluzione verde hanno costituito però un punto di rottura. Dopo la repressione, che colpì elementi riformisti delle Guardie rivoluzionarie, anche i più conservatori vissero un momento di crisi. “Era la prima volta dalla rivoluzione del 1979 che un’ampia sezione della popolazione chiedeva ad alta voce il cambiamento”. Le Guardie rivoluzionarie e i Bassij furono il braccio armato della repressione, ma anche i falchi compresero che senza un alleviamento delle sanzioni la sopravvivenza della Repubblica islamica sarebbe stata in pericolo. La maggior parte dei figli dei conservatori, scrive Bajoghli, “affronta gli stessi problemi di una larga parte dei giovani iraniani: alta disoccupazione e scarse opportunità di crescita”. “Qualunque sia la loro posizione nello spettro politico, i membri delle Guardie rivoluzionarie e i Basij considerano la loro priorità numero uno la sopravvivenza della Repubblica islamica. Oggi questo significa mettere a posto la decadente economia iraniana e sollevare le sanzioni. La grande maggioranza delle forze militari e paramilitari a favore del regime capisce che l’Iran ha bisogno di cambiamento soprattutto quando pensano al terribile futuro economico che attende i loro figli”.

 

Il rischio per l’establishment

 

Tra i molti falchi che si sono espressi a favore dell’accordo nucleare però manca il più importante, Ali Khamenei, ma l’entusiasmo per il deal espresso dai gruppi più conservatori “è quasi certamente un riflesso del suo pensiero”, scrive il New York Times. Secondo Parisa Hafezi, che scrive su Reuters, un eventuale fallimento dell’accordo, con il conseguente mantenimento delle sanzioni economiche, metterebbe a rischio serio l’intero establishment di Teheran: “Le speranze iraniane di porre fine all’isolamento internazionale sono diventate così alte dall’accordo di Losanna che un fallimento genererebbe un livello di delusione che potrebbe danneggiare le autorità, anche se l’occidente viene rappresentato come colpevole”, scrive Hafezi.

 

[**Video_box_2**]Dunque le sanzioni all’Iran stavano funzionando, mettevano in crisi anche i falchi del regime, e anche loro, i falchi, ormai speravano in un accordo. Ma questo significa che l’occidente sta scambiando l’efficacia delle sanzioni per delle concessioni nucleari che oggi fanno sorridere anche i più duri tra i membri del regime iraniano. Così, quando parlando al Congresso americano il premier israeliano Benjamin Netanyahu chiedeva retoricamente ai parlamentari americani se l’accordo nucleare fosse un buon accordo o uno cattivo, la risposta arriva oggi dagli endorsement soddisfatti delle Guardie rivoluzionarie.