Harry Reid (foto LaPresse)

La cinica Washington sarà orfana di Harry Reid, il kingmaker liberal che si inventò la corsa di Obama alla Casa Bianca

“Capisco questo posto, e ho parecchio potere come leader dell’opposizione”, ha detto Reid in un video pubblicato questa mattina, “ma voglio andarmene al top, non voglio essere il pugile 42 enne designato come vittima sacrificale”. Nella metafora pugilistica c’è tutto Harry Reid, che da giovane un pugile lo è stato davvero.

New York. Harry Reid dice che i lividi in faccia e l’occhio ancora malconcio non c’entrano niente con la decisione di non candidarsi per il sesto mandato al Senato. Semmai l’incidente domestico del 1° gennaio, quando il leader dell’opposizione democratica stava facendo esercizio nella sua casa di Las Vegas, gli ha dato la lucidità necessaria per riflettere e ponderare sul suo futuro politico, alla soglia dei 76 anni. Perché qui si tratta di un “career shift”, non della pensione. Difficilmente lo ritroveremo in pantofole nello studio a leggere vecchi tomi di storia americana.

 

“Capisco questo posto, e ho parecchio potere come leader dell’opposizione”, ha detto Reid in un video pubblicato questa mattina, “ma voglio andarmene al top, non voglio essere il pugile 42 enne designato come vittima sacrificale”. Nella metafora pugilistica c’è tutto Harry Reid, che da giovane un pugile lo è stato davvero, e non perdeva occasione per risolvere le dispute di ogni genere con gli insegnamenti tratti sul ring. Funzionava così a Searchlight, Nevada, pugno di case nel mezzo del nulla con 500 anime, dodici bordelli, zero chiese. Ha anche dato un pugno in faccia al futuro suocero, un ebreo osservante che non voleva che la figlia sposasse un mormone. La figlia alla fine l’ha sposato, si è convertita e i due stanno insieme da 53 anni: Reid ottiene sempre ciò che vuole. E dire che Reid ha una stima infinita per il popolo ebraico, e corteggia da sempre con grandissima cura quella costituency. Anche la dichiarazione formale della Casa Bianca insiste sulla metafora del “lotattore” che si è battuto per il suo popolo e per il suo partito così come si era battuto con i guantoni in un’altra epoca. E’ un cerimoniale necessario per uno dei personaggi fondamentali della politica di Washington, una specie di Frank Underwood senza charme mondano e con scarsissimo talento per i monologhi alla telecamera, l’ultimo kingmaker democratico in circolazione, se si fa eccezione per Chuck Schumer, con il quale infatti ha un’alleanza di ferro; lo ha già indicato come successore per tentare di recuperare la maggioranza il prossimo anno. Reid non è mai andato alle feste, non ha mai fatto vita da cocktail a Washington, non ama le conversazioni che durano più del necessario, è affettuosissimo con i colleghi quando percepisce che hanno bisogno di qualcuno che dica loro “I love you”. Lo ha detto teneramente (e pubblicamente) a John Kerry quando nel 2008 ha annunciato che non si sarebbe candidato un’altra volta alla presidenza, e lui ha dovuto fare uno sforzo per trattenere le lacrime. Tutti sapevano che Reid disprezzava profondamente Kerry. Così tanto da incoraggiare in sua vece le ambizioni strabordanti di un giovane senatore che subito s’era segnalato per la sua forza comunicativa, Barack Obama. Praticamente è stato lui ad inventarsi l’idea della corsa per la presidenza. All’alleata Hillary mandava messaggi rassicuranti, al giovane Obama dava consigli su come affrontare la sfida. Dicono che ricavasse un piacere vagamente morboso nell’influenzare la furiosa lotta fratricida, lo stesso che ricava ogni volta che fa imbestialire una corrente del suo partito introducendo emendamenti impensabili o prendendo posizioni eterodosse.

 

Già nel 2010 aveva accarezzato l’idea di non ricandidarsi, un po’ per il timore dell’ondata del Tea Party in uno stato fluido come il Nevada – alla fine ha polverizzato l’improbabile Sharrod Angle, ma per mesi i giornali hanno parlato di un inesistente e suggestivo testa a testa – un po’ per la disfunzionalità del ramo esecutivo, bloccato dalla polarizzazione politica e da regole d’ingaggio che favoriscono i veti incrociati. Diversi senatori hanno lasciato lo scranno convinti, a ragione, di accrescere la propria influenza politica uscendo dal congresso. Il repubblicano Jim DeMint è andato a dirigere la Heritage Foundation per avere maggiore impatto sul partito. Anche Reid, che del cinismo calcolatore di Washington è l’incarnazione, sta ragionando sul modo più efficace per menare le mani.

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