Dick Cheney con Barack Obama (foto LaPresse)

In un'intervista a Playboy, Cheney rifiuta la carta razziale di Obama

“Guardo Obama e vedo il peggiore presidente nel corso della mia vita, e questo la dice lunga. Ho criticato duramente Jimmy Carter, ma al confronto Obama e quello che sta facendo al paese è una tragedia. Pagheremo un prezzo enorme soltanto per risollevarci da questa presidenza”, dice l'ex vicepresidente americano.

New York. Dick Cheney non ha mai lesinato critiche a Barack Obama, e nell’intervista a tutto campo su Playboy, precipitato di dieci ore di conversazione con James Rosen di Fox News, ha avuto modo di spiegare con dovizia di argomenti che il presidente è una “vera tragedia”, perché i suoi atti avranno conseguenze enormi anche oltre il suo mandato. “Guardo Obama e vedo il peggiore presidente nel corso della mia vita, e questo la dice lunga. Ho criticato duramente Jimmy Carter, ma al confronto Obama e quello che sta facendo al paese è una tragedia. Pagheremo un prezzo enorme soltanto per risollevarci da questa presidenza”.

 

L’ex vicepresidente attacca in particolare sulla politica estera, aspro terreno di dissenso già molto esplorato, ma scatta con inedito vigore quando l’intervistatore ricorda che Obama ed Eric Holder, il procuratore generale, hanno lasciato intendere che i loro critici sono animati da un certo odio razziale: “Penso che stiano giocando la carta razziale”, dice Cheney, difendendo il diritto a criticare l’Amministrazione senza per questo essere bollato come un razzista. Sull’omicidio di Ferguson difende il poliziotto (“ha fatto il suo dovere”) che è stato assolto per l’omicidio di Mike Brown e invita a non “buttare tutto sulla razza”. “Mi dà fastidio – dice – che quel tipo di circostanza abbia generato quel tipo di risposta. Non penso che c’entri con la razza. Penso che abbia a che fare con una persona che si è comportata in un modo che avrebbe provocato la doverosa reazione di un agente”. Cheney non si è soffermato spesso su questi argomenti, ma le sue stilettate arrivano nel momento in cui l’America si trova a considerare la propria posizione sui fatti di Ferguson e sulla questione razziale che questi hanno risollevato.

 

Il poliziotto che ha sparato al diciottenne afroamericano è stato scagionato da un gran giurì ed è uscito intonso da un’inchiesta del dipartimento di Giustizia. Qualche giorno fa il columnist Jonathan Capehart, nero e liberal, ha scritto sul Washington Post un articolo coraggioso che ammette una verità complicata da accettare per chi legge la situazione sociale esclusivamente in termini di conflitto razziale: Mike Brown non aveva le mani alzate – il gesto che è diventato il simbolo globale della protesta – non si stava arrendendo davanti al poliziotto, lo dicono centinaia di testimoni, autopsie indipendenti, lo dicono le prove balistiche, i rilievi sulla scena, lo dicono tutti tranne l’amico che era con lui, il quale ha prodotto una versione dei fatti che non è corroborata da nessun altro testimone. La versione della piazza è “basata su una bugia”, ammette Capehart, suggerendo – sulla falsariga di Cheney – che nel reagire all’omicidio di Ferguson una fetta d’America ha giocato la carta razziale.

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