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No, la riforma spagnola non ha eliminato la precarietà

Marco Leonardi e Bruno Anastasia

Le norme varate a Madrid hanno messo gran parte dei costi delle stabilizzazioni a carico dello stato, ma è presto per dire se funzionerà. Il lavoro precario non si elimina per legge: lo insegna la storia 

Chi scrive non è a prescindere a favore dei contratti a tempo determinato ma crede che la questione sia intrisa di ideologia per cui esistono i favorevoli e i contrari al contratto a tempo determinato a prescindere, mentre quei contratti hanno funzioni specifiche nel mercato del lavoro. Servono certo per coprire i picchi di produzione, per le sostituzioni di maternità e per il lavoro stagionale. E il loro utilizzo dipende anche delle condizioni di contesto: da quanto è appetibile il contratto a tempo indeterminato, da quanto costano le possibili alternative mediante esternalizzazioni o ricorso a forme di lavoro autonomo. Il contratto a tempo determinato non è un istituto neutro a cui si può essere favorevoli o contrari a prescindere, è un istituto che vive anche nel ciclo economico: i contratti a tempo determinato creano più rapidamente lavoro in una fase di ripresa così come sono i primi a ridursi durante una crisi, come abbiamo ben visto nel 2020.

Oggi in Italia ci si lamenta in generale in maniera acritica delle condizioni di precariato e si cita la riforma spagnola che avrebbe come d'incanto eliminato il problema. Allora guardiamo un po' meglio la riforma spagnola. Sicuramente un successo perché, anche su impulso della Commissione europea e del Pnrr, ha ridotto in un anno la quota di occupati a tempo determinato sul totale dipendenti dal 26 al 18 per cento (dati Eurostat) ma ha messo gran parte dei costi delle stabilizzazioni non a carico delle aziende ma a carico dello stato. Prima della riforma, il 50 per cento circa dei contratti a tempo determinato erano in realtà dei contratti limitati alla durata di uno specifico progetto e questi sono stati eliminati del tutto, un po’ come il Jobs Act in Italia che nel 2015 eliminò le collaborazioni a progetto e le associazioni in partecipazione. In Spagna, nel 2022, due milioni di contratti sono stati trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato e fin qui è un gran successo ma tutti gli altri contratti a tempo determinato brevi come sono stati sostituiti? 

Dopo la riforma in Spagna si può aprire un contratto a tempo determinato solo con causali precise: picchi temporanei di produzione, sostituzione maternità/malattia oppure formazione. E’ un po’ quello che succede da noi dopo il primo anno di contratto a tempo determinato attivabile senza motivazioni specifiche ma pur sempre dentro precisi limiti quantitativi rispetto agli organici aziendali. Per proseguire con rinnovi o proroghe bisogna sostanzialmente utilizzare causali analoghe a quelle previste in Spagna fin dall’attivazione iniziale. 

Alcuni nuovi contratti sono quindi rimasti a tempo determinato, perché potevano utilizzare una delle causali ammesse, ma per quelli brevi di una settimana o di un mese a ripetizione è stato creato un nuovo tipo di contratto che si chiama “contratto permanente discontinuo” che è un contratto a tempo indeterminato dove il lavoratore è a disposizione a chiamata: sono evidenti le analogie con tipologie esistenti anche in Italia come il contratto intermittente o il part time ciclico verticale. Nei periodi in cui il lavoratore non è impiegato (e a patto che abbia pagato i contributi) può chiedere la disoccupazione e può quindi contare sul sostegno del welfare (anche in Italia c’è una discussione aperta sul tema. La legge di Bilancio 2022 aveva stanziato un fondo di 30 milioni per il part time ciclico verticale. I sindacati chiedono che i dipendenti a part time ciclico percepiscano la disoccupazione nei periodi non lavorati come gli stagionali). Questa è la ragione per cui si sono messi d'accordo facilmente sindacati e imprese. Lo stato è anche contento perché questi lavoratori non figurano più come disoccupati anche se non stanno lavorando mentre figurano come occupati in cerca di lavoro (non sappiamo come verrebbero trattati da Istat in Italia). Ovviamente il contratto a tempo indeterminato ha un livello di stabilità molto maggiore rispetto ai ripetuti contratti a termine. E’ come un contratto a chiamata a tempo indeterminato in Italia o un contratto a part time ciclico verticale.

Ora è presto per dire se davvero la riforma spagnola ha fatto la magia anche perché i contratti a tempo indeterminato in Spagna hanno regole di licenziamento molto lasche: venti giorni per ogni anno di servizio fino a un massimo di un anno di salario per un licenziamento legittimo, trentatré giorni fino a un massimo di due anni per un licenziamento illegittimo. Presto tutte queste stabilizzazioni potrebbero rivelarsi effimere.
Noi non crediamo che da sole le regole creino effettiva occupazione stabile. Soprattutto non crediamo che il problema della precarietà italiana – che certo esiste – sia dovuto solo all’esistenza del contratto a tempo determinato e che sia sufficiente introdurre divieti e restrizioni per contrastarlo.

La precarietà in Italia è una condizione ascrivibile non tanto a questa tipologia contrattuale quanto alle numerose forme di irregolarità, che vanno dal lavoro totalmente in nero (che interessa in modo particolare segmenti di manodopera straniera) agli abusi di situazioni finalizzate alla formazione o all’inserimento lavorativo e in realtà utilizzate in alternativa a reali rapporti di lavoro dipendente (stage, tirocini, praticantati, dottorandi) fino al part time, utilizzato per copertura parzialmente regolare di posti di lavoro a tempo pieno e quindi finalizzato a risparmiare sui costi del lavoro. Perché la precarietà non si elimina per legge, ce lo insegna la storia: fino al 1984 il part time in Italia praticamente non esisteva e non era regolato e il tempo determinato era ancora limitato a un elenco di attività stilato negli anni 60, ma la precarietà e la flessibilità esistevano comunque, sotto forma di collaborazioni (molto diffuse tanto che con la riforma Dini ne è stata prevista la regolazione previdenziale), di lavoro autonomo marginale e di lavoro nero tout court. Poi con il pacchetto Treu (1997) è stato introdotto il lavoro interinale, nel 2001 è stato relativamente liberalizzato il contratto a tempo determinato, nel 2003 sono arrivati i contratti a progetto, i voucher e i contratti intermittenti. Nel 2012 sono state disposte severe restrizioni ai contratti intermittenti che si stavano espandendo e così sono decollati i voucher. Che repressi nel 2017 hanno lasciato il campo a una nuova crescita dei tempi determinati e degli intermittenti. E la storia non è conclusa. Un certo livello di contratti flessibili, di durata limitata, non si elimina ma caso mai si sostiene con il welfare pubblico. Se fossimo tutti d’accordo estenderemmo i contratti a chiamata a tempo indeterminato e i contratti di part time ciclico verticale, consentendone o facilitandone l’accesso alla Naspi. Il tema andrà affrontato e approfondito, intanto è opportuno combattere le irregolarità che interessano il part time in buona parte del paese. Fa senz’altro pensare che nel settore manifatturiero la quota di part time (dati Inps media 2021, dipendenti delle imprese private) sia del 34 per cento in Calabria contro il 9 per cento in Lombardia; e se consideriamo solo la componente maschile si va dal 28 per cento in Calabria al 3 per cento in Lombardia. Dubitiamo che siano “veri” contratti part time, eppure, ironia della sorte, sono contratti a tempo indeterminato. Limitare i contratti a tempo determinato per poi trovarsi un travaso in finti contratti part time non sarebbe davvero un grande affare soprattutto per i lavoratori.

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