Foto di Francois Mori, AP Photo, via LaPresse 

Scosse necessarie

L'Ocse mostra all'Italia verità indicibili sulla produttività. La politica però fischietta

Oscar Giannino

Il crollo demografico, ma anche il calo del tasso capacità di produrre avranno un forte impatto sulla possibilità di crescita. Per il nostro paese l'andamento della curva è implacabile

La settimana scorsa l’Ocse ha pubblicato il suo Interim Outlook di primavera. Ci sono un paragrafo e due grafici che dovrebbero suonare come un allarme rosso per chi governa l’Italia. Mettono al centro una questione serissima: da quel che si può calcolare oggi, chi davvero lavorerà negli anni a venire? Chi continuerà a produrre e a far crescere pil e reddito? Chi sosterrà i conti intergenerazionali della previdenza, della sanità e del welfare? La risposta è raggelante.

Bisognerebbe considerarla una priorità assoluta. I più hanno riportato che l'Ocse rialza, seppure di poco, le previsioni di crescita diramate a fine 2022 per il 2023. Per l’euroarea si passa dal +0,5 per cento al +0,8 per cento e per l’Italia dal +0,2 per cento al +0,6 per cento, mentre la Germania vede sfumare per l’anno prossimo la precedente ipotesi-recessione, ma comunque la crescita del suo pil si ferma a un modesto +0,3 per cento.

Questo moderato rialzo delle previsioni dipende dal fatto che in molti settori il commercio globale tiene e riprende, la Cina spinge il più possibile e noi resteremo spaventosamente dipendenti da lei a doppia cifra percentuale per troppe commodities essenziali, ma insomma l’inflazione sta moderatamente scendendo e il rialzo dei tassi sulle due rive dell’Atlantico sta considerando come evitare effetti troppo restrittivi e soprattutto instabilità del sistema finanziario.

A un certo punto però la doccia gelata: tutte le riforme in corso dovrebbero tenere in gran conto due trend in progressivo consolidamento. La curva demografica a picco. E il calo della produttività, sia quella del lavoro sia multifattoriale. Entrambi impattano duramente le possibilità di crescita. La crescita del pil potenziale nei paesi più avanzati del G20 è scesa da una media del +2,2 per cento annuale tra 1996 e 2000 al +1,4 per cento tra 2011 e 2022.

Quella dei paesi emergenti nel G20 dal +6,2 per cento al +4,2 per cento. La tabella poi dell’andamento della produttività del lavoro per l’Italia è implacabile. Mentre per gli Stati Uniti la crescita media annuale è scesa dal +1,8 per cento annuo al +1,2 per cento, per la Germania dal +0,8 per cento al +0,4 per cento e per la Francia dal +1 per cento al +0,4 per cento, in Italia negli anni 2011-22 siamo scesi dal +0,2 per cento medio annuo al -0,2 per cento.

Per capir meglio, vanno richiamati tre criteri. Il dato medio incorpora tutti gli occupati di ogni settore, per l’Italia nella manifattura la crescita della produttività del lavoro è restata molto più elevata ma è compressa verso il segno meno da quella della Pa e del più dei comparti dei servizi. Nella produttività del lavoro pesa l’intensità del capitale investito per occupato, il peso più o meno rilevante di settori ad alto valore aggiunto e ad alta intensità di conoscenza e investimenti. E nella decrescita così rapida del pil potenziale pesa moltissimo il calo dell’offerta di lavoro potenziale, cioè la diminuzione rapida anno dopo anno di chi ha un’età tra i 15 e i 64 anni.

Ed eccoci alle due sfide che il più delle riforme in corso in Italia non sembrano cogliere. A settembre scorso un occasional paper della Banca d’Italia stimava che gli oltre 300 mila occupati in più che il Pnrr potrebbe produrre al 2026, se davvero riusciamo ad attuarlo al meglio, sarebbero in presenza di un calo negli stessi anni ancor più elevato dei potenziali lavoratori tra i 15 e i 64 anni. Se proiettiamo in avanti i nostri andamenti demografici, di qui al 2030 il calo tra quelle coorti anagrafiche è del 6 per cento, nelle quattro Regioni italiane a maggior spopolamento ed emigrazione all’estero di giovani supera il -10 per cento, con punta massima del -12 per cento in Calabria.

Per reggere, nel breve bisognerebbe immaginare un drastico innalzamento degli incentivi a investire in tecnologie, accrescendo l’intensità di capitale per occupato. Non guardando sogli agli obiettivi europei della transizione digitale e green, ma alla produttività complessiva italiana, cioè nella Pa e nei servizi. E una drastica svolta in tutti gli strumenti necessari a invertire la curva demografica: che però nell’esperienza dei paesi avanzati che l’hanno compiuta richiedono anni e anni per ottenere l’obiettivo, visto che uniscono insieme misure fiscali e contributive per consentire a chi ha meno di non rinunciare ai figli, e l’apertura all’immigrazione invece della chiusura modificando leggi come la Bossi-Fini.

Nel breve invece bisognerebbe mirare a innalzare radicalmente in pochi anni i tassi di attività, che per giovani e donne in Italia sono lontani tra i 15 e i 18 punti percentuali dai paesi nordeuropei. Ma anche per questo serve un coordinamento ad hoc della riforma fiscale e contributiva, delle politiche attive del lavoro, del sistema formativo pubblico e della formazione professionale. Altrimenti non si esce dalla trappola di meno lavoratori potenziali, troppi inattivi e perdita di cervelli.

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