La virtù sta nelle medie imprese

Dario Di Vico

Nonostante la difficoltà delle classi dirigenti a sintonizzarsi con le esigenze e le prospettive del paese, l’Italia va avanti, e bene: merito dei tanti che operano lontano dai riflettori. Medie imprese, Terzo settore, famiglie sono i pilastri del paese aperto al mondo e al futuro. Ma non hanno ancora un leader

La prima cosa da sottolineare, volendo occuparsi dello stato di salute del paese, è che alla fine anche le più recenti vicende politiche di carattere internazionale dimostrano come la vera forza dell’Italia stia nel comportarsi “obbligatoriamente” come un’economia aperta. Per le caratteristiche geografiche, per l’insediamento nella Comunità europea, per il ruolo della moneta unica, per il meccanismo di funzionamento del sistema delle imprese, è l’apertura il nostro destino. Provare a invertire questa tendenza ci porta a richiamare il vecchio adagio che recita: non si ferma il vento con le mani. Poi si potrà, e giustamente, obiettare che le stesse classi dirigenti italiani non ne sono pienamente coscienti coltivando loro una vocazione ombelicale, che le porta a ingigantire i piccoli avvenimenti di casa nostra (le polemiche da social) e invece a sottovalutare gli elementi di contesto internazionale. Lo si è potuto constatare anche di recente nelle cronache economiche: la Croazia ha deciso di entrare nell’euro e noi che ce ne saremmo dovuti rallegrare per la conferma dell’attrattività della moneta, per la vicinanza dei due paesi, per il sorpasso che abbiamo effettuato nell’ultimo anno diventando a scapito della Germania il primo partner commerciale di Zagabria (con più esportazioni che importazioni), invece abbiamo di fatto ignorato l’avvenimento. L’abbiamo derubricato, l’attenzione istituzionale è stata bassa e i nostri giornali ne hanno parlato poco e a fatica.

 

Lo stesso è avvenuto per la notizia della vendita di Whirlpool Italia (statunitense) ai turchi del gruppo Arcelik. La grande tradizione manifatturiera dell’industria del bianco dei Borghi di Varese e dei Merloni di Fabriano passa di mano a una società di Istanbul che finora si è caratterizzata per una politica di prezzo molto aggressiva e che non si sa se abbia le spalle sufficientemente larghe per caricarsi quattro stabilimenti in Italia ex Whirlpool, ebbene la cosa non smuove più di tanto. I sindacati hanno chiesto al governo di farsi carico del problema ma si aspettano tempi migliori o non si sa che pesci pigliare, si rimanda tutto al giudizio dell’Antitrust europeo e l’esecutivo – a parole attentissimo alla sovranità alimentare, industriale e psicologica – per ora nicchia. Eppure il deal Whirlpool-Arcelik modifica gli assetti dell’industria degli elettrodomestici in Europa mettendo in difficoltà noi (per le sinergie con gli impianti rumeni che possono richiedere sacrifici occupazionali a Siena o a Fabriano) e la Polonia, terra nella quale in passato tutti delocalizzavano. Acquisizioni di questo peso hanno “obbligatoriamente” nell’economia moderna una valenza geopolitica e infatti le indiscrezioni parlano di una vendita che gli americani avrebbero potuto chiudere prima ma a costo di vendere ai cinesi di Midea. Da cui l’opzione turca.

  

Dunque l’Italia va avanti nonostante la difficoltà delle classi dirigenti a sintonizzarsi con le esigenze e le prospettive del paese. Va avanti con i tanti, le maggioranze silenziose. Mi è capitato di discutere di recente con interlocutori smaliziati sulla qualità degli imprenditori italiani, sulla perdurante nostalgia che nutriamo nei confronti dei grandi capitani di industria e sulle performance straordinarie delle tante imprese italiane che hanno permesso di inanellare record su record in materia di export (siamo al record di 625 miliardi). E sul fatto che nonostante l’Italia sia stata colpita per prima dal Covid le nostre Pmi sono rimaste agganciate alle grandi catene del valore renane senza che nemmeno in un caso venissero sostituite da imprese di altra nazionalità. Alla fine della discussione si conveniva come tutto sommato stessimo parlando di protagonisti che sono sfuggiti ai radar, che non sono conosciuti, non sono mostri di popolarità, non vanno in copertina. E dietro questo giudizio di sintesi c’è un mutamento profondo: la struttura della dimensione delle nostre imprese non è più da tempo quella piramide che aveva comunque al vertice un numero significativo di grandi imprese ma ora assomiglia di più a un trapezio isoscele, con il lato alto rappresentato da migliaia di medie imprese e da un numero elevato di multinazionali tascabili che sono il vero Gotha del nostro capitalismo privato. I tanti, anche in questo caso.

   

Champions: hanno un fatturato tra i 20 e i 500 milioni, in utile, sono cresciute mediamente del 5 per cento l’anno negli ultimi sei. Sono mille ma meno di un terzo è iscritto alla Confindustria, non hanno riscontri mediatici esterni e tutta l’attività di comunicazione è concentrata sul business

   

Da un punto di vista più squisitamente socio-politico è come se il sistema delle medie imprese si fosse messo in mezzo tra élite e popolo, se avesse trasformato in straordinaria la propria ordinaria amministrazione, se i comportamenti avessero avuto la meglio sui proclami, se si fosse realizzata una diffusione di virtù bottom up. Nel nord-est questo è più evidente per le caratteristiche di quel territorio dove tutto è più im/mediato, spontaneo e senza filtri, lontano mille miglia dai birignao politicamente corretti. Un piccolo editore basato a Padova, Italypost fondato da Filiberto Zovico, cura una meticolosa rassegna dei cosiddetti Champions, aziende con un fatturato tra i 20 e i 500 milioni, in utile e con Ebitda sopra il 10 per cento, cresciute mediamente del 5 per cento l’anno negli ultimi sei, in grado di pagare i loro debiti di funzionamento in un anno e mezzo. Sono mille, ma meno di un terzo è iscritto alla Confindustria, non hanno riscontri mediatici esterni e tutta l’attività di comunicazione è concentrata sul business. Quello dei Champions appare quasi un movimento, non produce leadership esterne e riconosciute ma genera comportamenti virtuosi, codici comuni tutto sommato replicabili.

 

Ma prendiamo un altro fenomeno: il reshoring. Ci siamo ammazzati a discutere della bontà delle intuizioni di del sottosegretario americano Janet Yellen, dei segnali di de-globalizzazione o meno, ci siamo ritrovati a spaccare il capello in quattro sulla “morte della globalizzazione come notizia esagerata” alla Twain e poi una ricerca ci ha zittito con la forza di raccontare ciò che è realmente avvenuto: un numero impressionante di aziende ha fatto operazioni di reshoring. Silenziosamente. Il 34,7 per cento del campione delle imprese venete interpellate dalla Fondazione nord-est negli ultimi due anni ha cambiato almeno un fornitore strategico. I nuovi suppliers nel 58 per cento dei casi operano in Italia e nel 16,4 per cento in un paese più vicino. Sostengono i ricercatori: “La certezza della fornitura viene concretizzata attraverso azioni di rientro in Italia di produzioni che in precedenza erano state delocalizzate, o come via intermedia, attraverso il nearshoring ovvero un accorciamento delle distanze”. Forse a Roma al ministero neanche lo sanno, forse i sindacati manco lo hanno capito. In realtà in Italia si fa poca ricerca economico-sociale (che gioverebbe più dei cento talk e dei mille sondaggi) e quindi sappiamo relativamente poco del comportamento dei tanti. Scarsa fenomenologia  e un diluvio di chiacchiere. Figuriamoci se si spendono soldi per illuminare i fenomeni di sistema, quelli che non producono leadership e risse in diretta.

 

La stessa sensazione si ha quando si parla delle filiere che sono state la grande risposta alla Grande crisi del 2008-2015, i sette lunghissimi anni che hanno prostrato la nostra economia. Chi sono i volti o i leader delle filiere? Certo ci sono le aziende capo-commessa come, per limitarci al food, Barilla e Ferrero, ma le filiere sono un fenomeno più largo, una novità che ha cambiato la testa degli imprenditori, che ha creato responsabilizzazione a valle quando prima i rapporti di fornitura erano ai limiti dell’informalità. Laddove il piccolo imprenditore considera da sempre sacra la proprietà formale della sua azienda e ha rigettato tutti i programmi confindustriali di fusioni accelerate, grazie alle filiere c’è stata una vera e propria cessione di sovranità indolore perché in tempo di 4.0 una pmi deve raccontare i suoi dati al capo-commessa. Altrimenti non può entrare nella programmazione dei flussi produttivi e diventa subito un collo di bottiglia. Le filiere sono state in definitiva la risposta che il sistema delle medie imprese ha dato in termini di flessibilità alla necessità di accrescere la produttività, di riorganizzare la produzione, di rinverdire la straordinaria storia dei distretti allargando le economie di scala oltre l’orizzonte della pura prossimità territoriale.

   

 Le performance straordinarie di tante imprese italiane hanno permesso di inanellare primato su primato in materia di export: siamo al record di 625 miliardi (foto Ansa)
    

Tanti non leader. Prendiamo il comportamento degli imprenditori al voto. Cambiano di continuo cavallo (ovvero partito) e quando sono davanti alle urne prevale in loro un sentimento di anarchia, si autoconvincono di essere degli outsider o dei ribelli. In fabbrica la loro antropologia è assai differente: reggono il timone, affrontano i marosi e guai a sgarrare, il capitalismo del resto anche ai piani bassi vuole ordine, continuità, abnegazione e pochi voli pindarici. Il 25 settembre scorso alle politiche gli imprenditori italiani hanno votato per il 25,3 per cento  Meloni e solo per il 6,7 per cento  la Lega. Secondo una rilevazione di Swg, allargando l’analisi all’universo delle partite Iva, il consenso per FdI sale fino al 32 per cento, sei punti oltre la media fatta registrare sull’intero elettorato. E’ come se il letto di un fiume (di consensi) avesse cambiato direzione nel giro di pochi anni. Ma la domanda che viene in automatico è semplice e a suo modo complicata. Non sono gli stessi imprenditori che prima che fossero indetti i comizi elettorali avevano espresso a più riprese un apprezzamento incondizionato nei confronti dell’operato di Mario Draghi, lo avevano applaudito fino a spellarsi le mani, avrebbero fatto carte false per averlo in visita nella loro azienda e che poi finiscono per premiare l’unico partito rimasto all’opposizione al suo buon governo? 

 

La risposta che si dà convenzionalmente è che nelle urne si è riprodotta “l’ambiguità di Rimini” con riferimento all’ultimo meeting agostano di Comunione e Liberazione e al pubblico di giovani e non presente in sala che nel giro di sole 24 ore aveva applaudito calorosamente sia Giorgia Meloni sia Mario Draghi. Allora si era parlato dell’opportunismo dei giovani ciellini ma in realtà dentro quell’ambiguità c’è qualcosa di più profondo che attraversa non solo la reazione a un exploit oratorio ma la cultura stessa degli imprenditori italiani e il loro non riconoscersi pienamente nell’establishment. La loro diversità da free rider.

 

Da una parte, infatti, la cultura prevalente nel paese non ha mai riconosciuto ai suoi industriali quanto di eccezionale hanno saputo costruire fino a diventare la seconda manifattura d’Europa, dall’altra questi ultimi – compresi molti dei protagonisti delle oltre 2 mila multinazionali tascabili – continuano a non percepirsi per ciò che sono, una “borghesia manifatturiera internazionalizzata”. Che dovrebbe in una qualche misura concorrere a costruire un contesto di stabilità. Come l’imprenditore è estremamente responsabilizzato nella conduzione di ogni tipo di azienda, nel rapporto con i propri collaboratori e nella competizione di mercato, così si sente perennemente insoddisfatto del “sistema”, di cui si considera vittima e non protagonista. Specie nell’imprenditore nordestino (ma non solo) è radicata una profonda critica nei confronti della Pubblica amministrazione, del sistema fiscale e della decisione romana. Da qui la tendenza ad affidare il proprio voto alle politiche – e non alle amministrative – a chi “vuole rivoltare come un calzino” (citazione meloniana) quel contesto di inefficienza e di burocrazia. Quando si presenta al seggio con il certificato elettorale l’imprenditore non indossa l’abito del borghese migliorista ma si considera un ribelle. Scommette sulla palingenesi.

  

Il giro di boa di Industria 4.0 e degli sgravi fiscali che hanno permesso l’ammodernamento del parco macchine dell’industria italiana. Il Terzo settore, decisivo per la tenuta del welfare e per il peso che ha nel sistema produttivo nazionale. Le famiglie, una solidarietà che resiste nelle sue dinamiche e si è acconciata ai mutamenti della società

   

O su un prodotto nuovo da provare, si chiami di volta in volta Renzi, Salvini o Meloni. Salvo poi pentirsene e la volta successiva cambiare scelta.
E’ importante osservare il fronte delle imprese perché non dobbiamo mai dimenticare che il ruolo dell’Italia nel mondo è legato al triangolo manifatturiero con Francia e Germania, senza di quello scenderemmo di parecchi gradoni. 

 

E’ quell’imprenditoria di fornitura intelligente e capace di fare innovazione che ci fa rispettare e alla quale dobbiamo molta della considerazione che si ha per l’Italia. Un mondo che ha visto la meccanica avanzare e in qualche modo insediare il primato – anche solo a livello di immagine – del made in Italy leggero, che pure nel caso della moda continua a tirare e ha superato i 100 miliardi di ricavi annui. Se dobbiamo trovare un episodio chiave che assomigli a un giro di boa possiamo pensare all’introduzione di Industria 4.0 e agli incentivi fiscali che hanno permesso di accelerare gli investimenti e di ammodernare un parco macchine dell’industria italiana terribilmente invecchiato. Ad avvantaggiarsi sono stati i comparti a tecnologia avanzata ma anche l’insieme della metalmeccanica. “Per apprezzare meglio questa avanzata è significativo il confronto con le tendenze dell’industria tedesca, dal quale si evince che dopo un lungo periodo in cui la meccanica italiana aveva registrato un andamento costantemente peggiore, la performance dei due paesi si è sostanzialmente allineata” si legge nel Cruscotto del lavoro della metalmeccanica, un dossier pubblicato nelle settimane scorse dalla Fim-Cisl per sottolineare anche dal versante laburista “l’orgoglio meccanico”.

 

Ma non è solo il sistema delle imprese che ci restituisce l’immagine e la forza dei tanti e delle maggioranze in pectore. L’altro protagonista silenzioso è il Terzo settore. I numeri parlando di 363 mila enti non profit con 870 mila dipendenti e 5,5 milioni di volontari ma non è il dato quantitativo che mi preme sottolineare, anche se parliamo di una pluralità di associazioni di volontariato, cooperative sociali, associazioni di promozione sociale decisive per la tenuta del welfare e per il peso che hanno nel sistema produttivo nazionale. E’ la qualità della presenza del Terzo settore nella transizione italiana che non è stata ancora valorizzata. La battuta è facile: i benzinai e i tassisti possono scioperare, i malati e i poveri no. E mentre un tassista assai difficilmente farebbe un’eccezione per caricare un passeggero in difficoltà e carico di valigie, un volontario non si sognerebbe mai di far pagare a un utente il costo del conflitto che lo oppone a un’ipotetica controparte. Infatti quello che qualifica il Terzo settore è la scissione tra protagonismo e potere, il non profit è innanzitutto un servizio capillare rivolto ai fragili e come tale non li usa per acquisire più potenza. E’ un’altra filosofia. Ma nel contempo messo tutto assieme il mondo del non profit svolge una funzione sussidiaria decisiva (Giuseppe Guzzetti in un’occasione pubblica disse persino di “sostituzione”) e lo si è visto al tempo dei lockdown, quando anche nella civilissima Milano le istituzioni giocavano a nascondino e la borghesia si era rifugiata in Svizzera, sul campo è rimasto il Terzo settore. Dalla Caritas al Pane Quotidiano. Nonostante una contrazione di ricavi e liquidità causata da un blocco delle stesse attività istituzionali, il non profit ha tenuto e ha messo in campo tantissimi progetti “piccoli e grandi per affrontare l’emergenza” come riconosciuto da un’indagine ad hoc del Censis. Nel mezzo dell’emergenza il Terzo settore è stato capace di reinventarsi attraverso attività di tipo nuovo come il supporto psicologico o la compagnia a distanza che sono stati avviati da poco meno di un terzo degli enti oppure con l’offerta di attività artistiche e culturali online  avviate dal 34 per cento delle imprese sociali. E’ un altro esempio dell’Italia che va e che però non produce leadership da copertina. La rappresentanza “sindacale” del Terzo settore obbedisce a meccanismi farraginosi e anche la scelta dei portavoce non è esente da sottovalutazioni del ruolo della comunicazione – ci vorrebbe una figura riconoscibile per il grande pubblico e capace di attirare l’attenzione dei media quando chiede la parola – ma è un sub-sistema che c’è e non vacilla. E che sarà chiamato a nuove prove di resilienza nella misura in cui l’organizzazione sanitaria nazionale purtroppo presenta numerose crepe, fatica a reclutare la manodopera necessaria e non ha davanti a sé un chiaro progetto di riforma/riparazione.

 

La riflessione sui tanti, sul protagonismo quotidiano non può e non deve essere confusa però con la tradizionale retorica sui corpi intermedi. Nessuno nega – anzi – che le società complesse abbiano bisogno di contenitori della domanda sociale che evitino la frammentazione e l’oscuramento dei bisogni, che questi contenitori non siano condannati ad essere solo “pronto soccorso sociale” ma che debbano dotarsi di una propria cultura e di schemi organizzativi robusti. La società di mezzo ha tutti i diritti di elaborare una propria visione del potere o meglio dei poteri di una società avanzata. Secondo una ricerca condotta a fine 2020 da Ipsos per la Fondazione Astrid e la Fondazione per la Sussidiarietà, più di un terzo degli italiani si dichiara socialmente attivo e iscritto almeno a un corpo intermedio, prevale quantitativamente chi si iscrive per difendere interessi particolari attraverso le rappresentanze su chi sceglie movimenti e partiti. Ma il guaio è che la maggior parte dei corpi intermedi “non riscuote credito” e fanno eccezione proprio le Onlus del volontariato, quella di tutela dei consumatori e le fondazioni culturali. Per recuperare terreno le associazioni intermedie, a detta del campione di italiani interpellati, dovrebbero contribuire alla crescita e al benessere sociale del paese e ovviare alle carenze di politiche e servizi pubblici. Ma non è così e per i sindacati Cgil-Cisl-Uil nella ricerca Astrid ci sono forse le note più dolenti visto che segnala nei loro confronti “un moto di insoddisfazione”. Fiducia e rilevanza restano quotate a livelli modesti, non sono attrattivi per i giovani, presentano agli occhi degli italiani addirittura dubbi sull’onestà personale dei singoli e hanno complessivamente perso la loro “funzione storica”. Estremamente critici nei confronti dei riti dei corpi intermedi così come oggi sono, 7 italiani su 10 giudicano però “abbastanza importante” il loro ruolo per far ripartire il paese, a patto però di riconnettersi con il sentimento popolare e svolgere una funzione di “intermediazione tra cittadini e governo”. Per far questo però le associazioni dovrebbero dismettere la pratica di tutelare mille poltrone e mille sofà, e “dar vita a una generosità organizzativa capace di mettere in discussione gli attuali recinti e per questa via aprire a un afflusso di energie e forze fresche”. E un esempio di scarsa generosità è fin troppo facile ricordarlo: sul conto della dirigenza di artigiani e commercianti peserà ancora per molto il brusco stop dato al progetto di creare Rete Imprese Italia, la grande associazione del ceto medio produttivo italiano, che avrebbe riscritto i rapporti di forza tra associazionismo e politica. Operazione fallita perché di cinque presidenti mai si troverà la generosità necessaria per eleggerne uno solo e cancellarne quattro.

 

La terza maggioranza silenziosa è quella delle famiglie, da cui dipende l’80 per cento del pil. Le si dava per morte e superate, l’individualizzazione dei comportamenti le avrebbe inesorabilmente scardinate. Si era anche scommesso che il Covid e il lockdown obbligando alla convivenza forzata avrebbe accelerato il processo di sgretolamento. Avrebbe cancellato quello che restava dell’originario ubi consistam. E invece è successo il contrario, non solo le famiglie si sono presentate davanti ai centri di vaccinazione come un soldato (con percentuali che ci hanno invidiato in tutta Europa) ma un dato si impone su tutti: nel 2020 rispetto all’anno precedente le separazioni sono diminuite del 18 per cento e i divorzi del 22 per cento. I demografi maneggiano con cautela questi numeri perché li vorrebbero depurare delle difficoltà burocratiche legate proprio alla pandemia ma si può quantomeno dire che la famiglia non è stata aperta come una scatola di tonno. Il 37 per cento dei nonni cura abitualmente un nipote mentre i genitori sono al lavoro e questo dato è aumentato negli anni Venti rispetto alla fine degli anni Novanta.

 

Secondo Cecilia Tomassini e Daniele Vignoli, che hanno curato l’ultimo Rapporto sulla popolazione edito dal Mulino, c’è stata una sorta di “specializzazione degli aiuti reciproci”. I figli sono dei facilitatori digitali, i 50enni sono più volti agli aiuti alla persona e i 70enni si alternano tra quest’ultima funzione e quella di sostegno economico. Nel 2021 l’87 per cento delle persone con più di 14 anni si dichiara molto o abbastanza soddisfatto delle relazioni familiari, uno su tre molto soddisfatto. La solidarietà familiare resiste nelle sue dinamiche e si è acconciata ai mutamenti della società. Una volta le famiglie erano molto segmentate a seconda del lavoro del breadwinner, oggi nello stesso nucleo troviamo il lavoratore dipendente assieme alla partita Iva, l’impiegato con il rider. Questo ventaglio di posizioni fa sì che la famiglia faccia da ammortizzatore sociale rispetto alle difficoltà economiche e in qualche maniera redistribuisca al suo interno, tra garantiti e non garantiti, chance e reddito ovviando ai vuoti di occupazione o a parziali cadute delle entrate dovute a shock esogeni. Nella ripartenza dopo il Covid il ruolo delle famiglie è stato decisivo: il cosiddetto rimbalzo dei consumi e dei servizi è stato dovuto all’apertura che dal basso si è imposta per tutte le attività, dai viaggi alle mostre, dal mangiar fuori ai concerti. Quando l’inflazione ha cominciato a picchiare le famiglie sono riuscite a tener su i consumi facendo ricorso ai risparmi che avevano messo da parte in precedenza e che erano rimasti parcheggiati nei conti correnti bancari, hanno fatto arbitraggio tra le loro priorità di spesa, hanno rinviato l’acquisto di beni durevoli (durante il lockdown avevano comprato addirittura le lavatrici tramite Amazon), hanno frequentato di più i discount e non hanno interrotto i consumi legati alla mobilità via aereo, via treno, via autostrada considerata in terra post Covid quasi un fattore identitario. Se la recessione appare più lontana è anche grazie a loro, che hanno saputo combinare selezione dei consumi, risparmi energetici e sobrietà.

 

Ovviamente le famiglie ancor più delle medie imprese e del Terzo settore non hanno un leader. L’indice della fiducia che ogni mese l’Istat sforna serve a comunicare il loro mood, cosa pensano o cosa mugugnano, le associazioni dei consumatori tentano di intestarsene la rappresentanza ma non hanno mai raggiunto la maturità e non si sono nemmeno lontanamente avvicinate alle forza che i loro colleghi di altri paesi occidentali possono vantare (anche per le ricorrenti pantomime del Codacons). 

 

Medie imprese, Terzo settore, famiglie sono loro il pavimento di un paese che con i suoi risultati (in qualche caso exploit, vedi le esportazioni) continua a stupire e a spiazzare gli analisti, ma ricondurre a sintesi politica o anche solo pre-politica il valore creato da questa “quantità” non è un’operazione immediata né semplice neanche per i loro studiosi. Come mi ha scritto di recente il sociologo Arnaldo Bagnasco: “Il problema di come occuparsi dei tanti si sta complicando. Che bei tempi per i sociologi quando si pensava di individuare e pesare le classi sociali, i tanti abbastanza omogenei, e lo si faceva magari senza vedere come cambiavano”. 

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