Capodanno A Times Square (LaPresse) 

Viaggio al centro dell'Impero

Protagonisti e retroscena del nuovo miracolo americano

Il de profundis per l'high tech americano? Forse no: c'è molto da rivelare nell'elaborazione dei dati e nella trasformazione delle risorse energetiche

Stefano Cingolani

Dispiace per i profeti della crisi, ma i consumi reggono, l’occupazione è alle stelle e gli investimenti nelle rinnovabili stanno aprendo praterie di sviluppo. Cosa aspetta l’Europa per partire all’inseguimento?

Nel 1967 Jean-Jacques Servan-Schreiber, partigiano, ingegnere, giornalista, deputato radical-socialista e poi ministro, amico di John F. Kennedy e di Gianni Agnelli, pubblicò un libro che divenne un bestseller mondiale, con oltre dieci milioni di copie tradotte e vendute. Il titolo: “Le Défi américain”, la sfida americana. Erano gli anni in cui gli Stati Uniti venivano prima intrappolati poi umiliati in Vietnam, mentre l’Unione sovietica conquistava il primato nei voli spaziali. La sfida della quale scriveva Servan-Schreiber andava ben oltre la Guerra fredda e riguardava non tanto l’Urss, ma l’Europa e lo stesso occidente. “Né le legioni, né i capitali, né la terra, né le materie prime, né le macchine, né il numero degli abitanti sono ormai gli strumenti della potenza – scriveva – E’ lo spirito. I giacimenti dai quali attingere sono nell’attitudine degli uomini a riflettere e a creare”. Parole che Paul Krugman considera oggi profetiche perché spiegano il mondo in cui stiamo vivendo. La nuova sfida americana è fatta proprio con gli stessi ingredienti di quel sogno umanistico.

 

Né le legioni, né i capitali, né le materie prime, né le macchine, né il numero degli abitanti sono gli strumenti della potenza. E’ lo spirito

 

L’autista che ci porta a Manhattan con il suo suv pazientemente incolonnato nella lunga serpentina dell’autostrada chiede da dove veniamo. Quando sente che siamo italiani e arriviamo da Roma sembra soddisfatto. A questo punto rivolgergli la sessa domanda non viola più il politicamente corretto. “Sono del Bangladesh”, risponde; poi dopo una pausa: “Ma ora sono cittadino americano”. Nessuna arroganza, né sfida o irritazione, c’è solo orgoglio nella sua voce. La crisi migratoria sulla quale picchia ogni giorno Fox News non interessa più il nostro tassista che custodisce come un gioiello il proprio passaporto; l’ha lasciata dietro le spalle, lui; eppure lacera gli Stati Uniti e buona parte del continente dove l’American Dream non s’è affatto spento, anzi continua a bruciare come un fuoco di salvezza per milioni di donne e uomini. Far parlare il tassista vìola la regola del giornalismo classico, ma questa volta occorre un’eccezione per aprire i nostri occhi appesantiti dai pregiudizi.

 

Il Nevada? Sarà l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili. La California? La regina del vento. L’Arizona? Il paradiso del sole

 

Noi europei abbiamo odiato, schernito, rispettato, adulato l’America, ma non la capiamo nemmeno adesso che, presi a schiaffi dal bullo di Mosca, sproloquiamo sulla guerra per procura, combattuta con il sangue degli ucraini, per riaffermare l’egemonia di una potenza in declino. Ancora una volta, però, questa America odiatamata finisce per sorprenderci. Certo, le preoccupazioni del cittadino medio sono ora l’inflazione e il lavoro, anche se i prezzi cominciano a scendere e l’occupazione continua a salire, però basta sollevare un pochino lo sguardo per vedere una nazione che ha ripreso a correre. Potrà inciampare negli ostacoli enormi che trova davanti, potrà fermarsi, fare un passo avanti e due indietro, ma nuove finestre si spalancano sul futuro. Il Nevada? Sarà l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili. La California? La regina del vento. L’Arizona? Il paradiso del sole. La Carolina? Anche gli ecologisti sono per il nucleare pulito, ben più del petrolio che i texani non sanno come rimpiazzare. Vinta la lotta per la terra, consumata la corsa all’oro, raggiunto il primato tecnologico, è questa la nuova frontiera.


La rivincita del consumatore

La guerra in Europa è un dagherrotipo dell’altro secolo, forte, ma lontano, trasmesso dalle televisioni e nemmeno in primo piano. Mentre Natale e Capodanno smentiscono i profeti della crisi. Macy’s, il più vecchio e popolare grande magazzino sulla Herald Square, preso d’assalto dai turisti. Italiano, francese, spagnolo risuonavano nei negozi e nelle strade. Quasi impossibile accedere a Broadway e a Times Square. File di un chilometro attorno al Metropolitan Museum, un’ora prima di entrare al Moma e ancor di più al Guggenheim. Sono solo sussulti festivi o s’è rimesso in moto il paese che Joe Biden vuole rifare, come ha titolato il New Yorker? Ben prima delle feste, tutti i sondaggisti hanno registrato il gran ritorno dei consumatori. I bilanci sono ancora provvisori, ma la National Retail Federation si attende un aumento fino all’8 per cento rispetto al record di 889 miliardi di dollari spesi l’anno scorso, con l’uscita dal letargo pandemico. E sono stime probabilmente al ribasso. La Nike ha calcolato che i suoi incassi tra il Black Friday e la Cyber Week sono stati a due cifre, ben oltre il 10 per cento. L’indice della fiducia dei consumatori è già più alto della media annua. Una tale domanda di consumi non ha paragoni con nessuno paese nell’Europa colpita dagli alti costi dell’energia e dal rialzo dei tassi d’interesse. La Federal Reserve ha rialzato il costo del denaro ben prima della Bce e l’inflazione sembra ormai domata; quanto alla benzina, gli automobilisti americani si lamentano perché ha toccato un dollaro e 35 centesimi al litro, quelli italiani accettano rassegnati che arrivi a due euro. Avendo raggiunto l’autosufficienza, gli Stati Uniti non hanno da temere nessun ricatto russo né la scarsità degli approvvigionamenti. E finché aumentano i posti di lavoro, l’inflazione fa meno paura: dieci milioni in due anni non sono certo noccioline, il tasso di disoccupazione è appena il 3,7 per cento, quasi tre volte meno che nell’Unione europea. 

 

Macy’s preso d’assalto dai turisti. Quasi impossibile accedere a Broadway e a Times Square. File di un chilometro attorno ai musei

 

Ci sarà una recessione come predicono i gufi, a cominciare da quelli appollaiati nel grattacielo della Goldman Sachs e nel nido del Fondo monetario internazionale? Forse, ma se nulla cambia sarà piuttosto un atterraggio morbido, prevedono alla Casa Bianca. La pressione nella catena globale dell’offerta si allenta, la ripresa post pandemica ha gonfiato i magazzini, quindi è il momento di smaltire le scorte, ciò ridimensiona l’indice dell’industria manifatturiera. La Bank of America segnala un raffreddamento della domanda da parte delle piccole aziende sue clienti, anche se è ancora del 7,6 per cento superiore allo scorso anno. Insomma, c’è un colpo di freno, non un arresto, tanto meno una caduta. Quanta parte di questa “resilienza” è frutto della spesa pubblica? 

 

La Bidenomics ha messo in campo una gran quantità di biglietti verdi: non tutti spendibili nell’immediato, ma sono risorse che fanno da acceleratore

 

La Bidenomics ha messo in campo una gran quantità di biglietti verdi: 1.200 miliardi di dollari stampati nell’autunno scorso per colmare in parte l’ampio gap infrastrutturale, 280 miliardi per sostenere la domanda nazionale nei microprocessori e ridurre la dipendenza dalla Cina, 369 miliardi per l’Inflation Reduction Act (Ira) destinato alle energie rinnovabili. Non è tutto denaro spendibile nell’immediato, c’è un orizzonte decennale (come per la riconversione energetica), tuttavia sono risorse che fanno da acceleratore. Gli economisti di Citigroup calcolano che sono stati impiegati 700 miliardi di dollari per sostenere redditi e consumi. I critici, non solo tra i repubblicani, sostengono che così si è alimentata l’inflazione (due punti su otto secondo l’economista liberal Dean Baker), tuttavia non sono da biasimare gli investimenti, destinati ad accrescere la produttività. Ed è la spinta del settore privato ad aver aumentato l’occupazione e i salari, in questo modo il potere d’acquisto medio è salito. I risparmi in un paese dove la gente s’indebita per consumare sono cresciuti di duemila e duecento miliardi di dollari. Le famiglie entrano nel 2023 con un bilancio migliore rispetto al 2019, secondo gli analisti di Citigroup, e ciò mitiga le conseguenze del rallentamento produttivo e della stessa inflazione. La crescita dell’occupazione fa da calamita anche ai flussi migratori (1.500 donne e uomini varcano ogni giorno il confine illegalmente secondo la polizia di El Paso) e spiega in gran parte la nuova emergenza subito sfruttata dalla destra. Il governatore del Texas ha spedito un bus pieno di clandestini latinoamericani davanti alla casa della vicepresidente Kamala Harris; la Corte suprema a maggioranza conservatrice ha confermato il Title 42 introdotto da Trump in funzione anti Covid, che consente le espulsioni immediate per “motivi sanitari”; giornali e televisioni ostili all’amministrazione Biden battono ogni giorno sulla invasione da sud e incolpano il presidente. Ma la cronaca ci parla di ieri e di oggi. Per gettare uno sguardo sul domani occorre ancora una volta superare la miopia del quotidiano.


E’ il mercato, bellezza

E’ stato un anno orribile a Wall Street per i titoli tecnologici protagonisti del boom pre-pandemia. Apple aveva aperto il 2022 con un patrimonio da tremila miliardi di dollari, adesso è scesa a duemila. Tesla ha perso il 12,2 per cento in un solo giorno martedì scorso. E già in molti intonano il de profundis per le Big Five (Alphabet, Apple, Amazon, Microsoft, Facebook) e soprattutto per Elon Musk. Che cosa sta succedendo? La loro èra è davvero al tramonto? Le storie sono diverse e non si possono mettere tutte sullo stesso piano. Apple è colpita duramente dalle conseguenze del Covid-19 in Cina, dove si trova il grande impianto della Foxconn che produce gli iPhone, i prodotti di maggior successo. La pandemia danneggia anche la Tesla: lo scorso anno ha chiuso il maggior stabilimento a Shanghai dove viene sfornata la iconica vettura. Riportare la produzione in America è caro, si cercano alternative nel sud est asiatico, ma sarà un processo lungo, difficile, costoso. Musk paga inoltre l’incauta acquisizione di Twitter che ricade in particolare su Tesla. L’auto elettrica in generale attraversa una fase di assestamento, ma ormai tutti i più grandi produttori si sono lanciati sulla stessa strada. L’imprenditore sudafricano è un pioniere, tuttavia adesso chi ha comprato le azioni Tesla  è convinto che i propri soldi saranno utilizzati per quel giocattolo che il visionario e imprevedibile boss si è voluto regalare salvo pentirsene il giorno dopo. Diversa la fida di Mark Zuckerberg che deve senza dubbio rivedere il suo modello di business inquinato dai persuasori occulti. Microsoft si lancia in aree nuove e di sicuro successo come i videogiochi, comprando Activision Blizzard per 68,7 miliardi di dollari. Quanto a Jeff Bezos, spazia ormai dall’a alla zeta. 

 

Non si può fare di tutt’erba un fascio, tuttavia l’industria tecnologica americana è entrata nella fase della sua maturità

 

Non si può fare di tutt’erba un fascio, tuttavia l’industria che per molto tempo ha guidato il rally di gran parte dell’economia americana è entrata nella fase della sua maturità. Se è così, ne vedremo delle belle: il consolidamento è già in atto, lo si capisce dalle scelte di Apple, Alphabet e Microsoft; ci saranno cambi di mano, passaggi di proprietà, nuovi bersagli e innovazioni di prodotto e di processo. Insomma il ciclo schumpeteriano è all’opera. Ciò crea incertezza in chi compra le azioni. L’anno è cominciato in ribasso, ma prima della Befana si sono visti cambiamenti. Epifania vuol dire rivelazione, ebbene il mondo high tech avrà ancora molto da rivelare sia nel campo dell’elaborazione dei dati sia nella trasformazione delle risorse energetiche. Follow the money, come si dice, e seguendo dove va il denaro si trova che ben 150 mila miliardi di dollari sono in gioco per quella che Janet Yellen, la segretaria al Tesoro, chiama “la transizione globale”.


La riconquista del West

La marcia verso l’impero del sole e del vento è tutt’altro che trionfale, sia chiaro. S’odono a destra squilli di tromba: scendono in campo le storiche Sette sorelle e i baroni del fracking, quelli che, grazie a shale gas e shale oil hanno reso gli Stati Uniti autosufficienti; le lobby del Golfo del Messico là dove è cominciato già negli anni 80 del secolo scorso la lunga battaglia per l’indipendenza petrolifera, bivaccano a Capitol Hill; nel partito repubblicano si rimpiange The Donald. A sinistra rispondono altri squilli: i sindacati temono che l’auto elettrica costi milioni di posti di lavoro (lo stesso refrain intonato a ogni innovazione che prima si presenta come distruttiva del passato e poi si rivela costruttrice del futuro); le comunità locali s’allarmano, troppe pale e troppi pannelli solari che stravolgono il territorio; gli ecologisti radicali rinnegano persino le fonti rinnovabili sull’altare dei risparmio e delle decrescita (in)felice. Tuttavia il treno è stato lento a partire, ma sarà difficile fermarlo. Un nuovo complesso industriale (e militare) sta prendendo forma come accadde negli anni 50 e 60. Allora sfidò l’Unione sovietica, oggi sfida non solo la Russia, ma soprattutto la Cina e anche l’Europa, isole britanniche comprese.

 

Ma la marcia verso l’impero del sole e del vento non è trionfale. A destra sono in campo i baroni del fracking, a sinistra i sindacati e le comunità locali

 

Hillary Angelo, sociologa che insegna all’Università di California a Santa Cruz, ha scritto un reportage per Harper’s Magazine partendo da Beatty, un piccolo centro del Nevada considerato la porta d’ingresso alla Valle della Morte. Qui su terreni pubblici strappati agli indiani Shoshone, dovrebbero sorgere grandi campi solari, simili a quelli già esistenti nel non lontano deserto del Mojave (nome di altre tribù indigene). Gli ambientalisti che pure si battono per le energie rinnovabili sono in imbarazzo. La valle non è morta, nonostante il suo nome, come molte depressioni nasconde la vita, animali, piante, uomini, perché gli ultimi nativi rimasti occupano un’area ai confini con il parco nazionale. Il progetto ha messo in agitazione gli abitanti dei centri urbani limitrofi, che hanno dissotterrato le asce di guerra a differenza dei pragmatici Shoshone i quali, almeno per il momento, preferiscono trattare con le autorità dello stato e con la NextExtra, la compagnia vero colosso del settore, per capire quali vantaggi trarne. La California “verde” da almeno sei anni ha cominciato a stendere pannelli nelle pianure desertiche, ma non sono sufficienti ad alimentare gli ambiziosi piani di riduzione dei combustibili fossili. Il Nevada, con appena tre milioni di abitanti, rappresenta la sua naturale riserva energetica che s’allunga nello Utah, in Arizona, New Mexico, Texas: è la nuova conquista del West, il piano Biden dà un colpo d’acceleratore, ma la corsa è cominciata da anni.

 

Al richiamo del sole risponde anche il sud degli Stati Uniti. Il Nord Carolina ne ha tanto, ma ha poca energia pulita. Il governatore Roy Cooper, democratico, ha introdotto una legge che punta a far crollare le emissioni di anidride carbonica del 70 per cento di qui al 2030 per portarle a zero entro il 2050. La Duke Energy, principale utility dello stato, dubita che l’obiettivo sia realizzabile, ma pensa di incorporare piccoli reattori nucleari per ridurre l’utilizzo di petrolio e gas. Tyler Norris che ha lavorato nell’amministrazione Obama come consigliere energetico, nel 2017 è tornato nello stato dove è nato e ha cominciato a lavorare a una società per lo sviluppo del solare, la Cypress Creek Renowables. Ora è convinto che le scelte del governo statale insieme all’impatto dell’Ira, sarà la vera “benzina” per far partire un processo in grado di superare anche ostacoli e opposizioni finora insormontabili. 

 

Con l’Inflation Reduction Act, il governo federale ha immesso la più grande infusione di capitale nella storia recente. Sarà davvero efficace? 

 

Troppo ottimismo? Il governo federale ha immesso la più grande infusione di capitale nella storia recente, ma sarà davvero efficace? Dopo gli entusiasmi della prima ora cresce la preoccupazione che alla fine prevalga l’inerzia dell’antico, grazie all’opposizione della lobby fossile e a un sistema politico americano sempre più frantumato che lo rende inefficiente. Affrontare le sfide del cambiamento climatico significa cambiare anche le abitudini quotidiane. Si stima che centoquaranta milioni di case debbano rifare l’intero sistema di riscaldamento e raffreddamento. “Abbiamo calcolato che circa un miliardo di apparecchiature domestiche dovranno essere trasformate o dismesse”, sostiene sul New Yorker Ari Matusiak, amministratore delegato di Rewiring America, società non profit che educa le comunità a utilizzare i fondi dell’Ira. Le amministrazioni locali sono sottoposte a uno stress notevole, a cominciare da quelle guidate dai democratici. 

 

Prendiamo il Massachusetts. Nel 2020 ha votato per Biden due contro uno e a Boston addirittura sette a uno. La capitale adesso scopre che deve riadattare trecentomila unità abitative e ciò coinvolge circa un decimo della popolazione urbana. Il comune ha bandito l’uso del gas nei nuovi edifici, ma non ci sono alternative, così il procuratore generale dello stato ha dovuto emettere una sentenza per rendere non esecutivo il provvedimento. Il Massachusetts ha deciso di lanciarsi nell’energia eolica, vista l’abbondanza di vento, ma dovrebbe costruire ben 25 impianti offshore in dieci anni e molti dubitano che sarà possibile. Contraddizioni in seno al popolo Democrat, che rivelano tutte le difficoltà del momento. Sulla strada del progresso verde, dunque, non ci sono solo Trump e i suoi seguaci, anche se è a loro che si rivolgono i lobbisti del petrolio e del gas per ridimensionare gran parte dell’Ira e ridurre le sovvenzioni per la transizione energetica. In una conferenza a Minneapolis l’American Gas Association ha chiesto esplicitamente ai Republicans di tutelare gli interessi dei produttori. La Western Energy Alliance, potente organizzazione dei petrolieri, ha messo sotto tiro la segretaria agli Interni Deb Haaland, paladina delle rinnovabili. La conquista della maggioranza alla Camera dei rappresentanti mette nelle loro mani un’arma politica potente. Solo che anche i repubblicani sono profondamente spaccati.


La democrazia divisa

I risultati di midterm hanno dato sollievo a Biden: di qui al 2024 continuerà a fare quel che ha fatto finora. Tuttavia, l’equilibrio politico è legato a un filo troppo sottile. Tutto dipende dalla Pennsylvania, o meglio dalla contea di Bucks dove il candidato democratico Mark Moffa ha superato l’avversario repubblicano Joe Hogan per due voti, 15.095 preferenze contro 15.093. E’ la situazione più paradossale, ma non l’unica: una manciata di schede elettorali nell’ottavo collegio del Colorado, nel secondo del New Mexico, nel terzo dello Iowa e così via. E’ vero che il sistema uninominale alla fine della conta incorona un vincitore, ma non garantisce consenso e governabilità. 

 

La furia di francesi, tedeschi, italiani, scesi in campo contro gli “aiuti di stato” e il “protezionismo americano”. Il bue dà del cornuto all’asino

 

Forti divisioni lacerano anche l’elefante repubblicano come dimostra lo scontro fratricida sull’elezione di Kevin McCarthy a speaker (presidente) della Camera. Contro di lui le truppe trumpiane marciano unite. The Donald è ferito, ma non domo. Sarà pure “disonorato per sempre” come ha scritto il New York Times, ma non lo è affatto agli occhi della base che determina le scelte del partito, come sottolinea Michael Tomasky, direttore di New Republic. Colpito duramente per le sue responsabilità nell’assalto a Capitol Hill un anno fa, per le sue opache dichiarazioni dei redditi, per gli affari immobiliari nient’affatto puliti con Vladimir Putin, e chi più ne ha più ne metta, ha annunciato che si candiderà per la Casa Bianca l’anno prossimo. Avrà di fronte di nuovo Biden? Il fattore età gioca contro il presidente: nel novembre 2024 avrebbe 82 anni suonati, se vince alla fine del secondo termine ne avrà ben 86. Sarà ancora lucido il commander in chief per gestire la valigetta nucleare di fronte all’imperialismo moscovita e alla volontà di potenza cinese? 

 
I lamenti dell’Europa

Gli incentivi alla transizione energetica hanno fatto infuriare francesi, tedeschi, italiani, scesi in campo all’improvviso contro gli “aiuti di stato” e il “protezionismo americano”, con la classica improntitudine del bue che dà del cornuto al povero asino. Emmanuel Macron nella sua visita a Washington ha tuonato contro “la frammentazione dell’occidente” per i sussidi all’auto elettrica e alle fonti rinnovabili. Dietro queste uscite scomposte e paradossali c’è anche un vero mercanteggiare: gli europei vogliono ottenere gli stessi vantaggi del Canada e del Messico anche se questi due paesi fanno parte di un’area di libero scambio che non esiste tra le due sponde dell’Atlantico. Sono polemiche che vanno indietro nel tempo. Per mezzo secolo i governi americani, sollecitati dalla Boeing, hanno accusato gli europei, in particolare francesi e tedeschi, di sussidiare l’Airbus, mentre era vero anche il contrario. Proprio il duello dei cieli è un esempio di come la sfida americana sia servita a risvegliare l’Europa dai suoi sogni di benessere a buon mercato con i verdoni dello zio Sam. L’Europa piagnucola, invece dovrebbe prendere esempio dal suo stesso passato: dal successo dell’Airbus, appunto, dalla corsa francese al nucleare civile come risposta alla crisi petrolifera e al predominio delle Sette sorelle, dalla trasformazione del Modell Deutschland, dalla riconversione industriale italiana studiata a Harvard e al Mit dopo “The Second Industrial Divide: Possibilities For Prosperity”, il libro di Michael Piore e Charles Sabel. Sfidati dall’America, gli europei si erano mossi. Se vogliono partecipare al nuovo grande gioco mondiale, si muovano di nuovo, con lo stesso spirito evocato da Servan-Schreiber, o tacciano per sempre.