La presidente della Bce Christine Lagarde (Thomas Lohnes/Getty Images) 

contare fino a dieci

Le pazzie su Mes e Bce offuscano i buoni segnali sulla manovra

Nicola Rossi

La politica che si straccia inutilmente le vesti dovrebbe fare invece gli straordinari perché le abbondanti risorse oggi ancora disponibili si trasformino in un tasso di crescita di lungo periodo pari a quello dei nostri partner dell’eurozona. Compito tutt'altro che facile

Non dovrebbe essere poi così difficile fermarsi a riflettere prima di parlare. Eppure – soprattutto in politica – sembra esserlo. Vediamo. Allo stato attuale i tassi di riferimento europei sono compresi fra il 2 per cento ed il 2,75 per cento. L’inflazione attesa oscilla fra il 4 per cento ed il 5 per cento per il prossimo biennio e fra il 2 per cento ed il 3 per cento solo a partire dal 2025. Levare gli scudi per le scelte della Bce, come una parte della politica italiana ha fatto in questi giorni, non è sbagliato. È risibile. Per lo più si tratta delle stesse persone che nella seconda metà degli anni Dieci stappavano champagne ogni volta che la Bce segnalava la propria volontà di dare un prezzo nullo o negativo al rischio. E più si stappava champagne più si ponevano le premesse perché il ritorno alla normalità – perché questo, e solo questo, è quello che sta accadendo oggi – fosse improvviso e doloroso come certamente oggi è.

  

Si dirà che tutto questo può pure essere ragionevole ma che la realtà dei fatti è che per l’Italia il conto potrebbe essere salato. Anche qua, non è poi del tutto ovvio. Tassi di interesse in aumento gonfiano nel tempo l’onere del servizio del debito ma, al tempo stesso, tassi di inflazione significativi – una tassa, non dimentichiamolo mai, per giunta non votata da nessun Parlamento – contribuiscono, per il tramite di una maggiore crescita nominale, ad abbattere il rapporto fra debito pubblico e prodotto. E allora? Gli amanti della congiuntura minuto per minuto osserveranno che così si finisce per interrompere la straordinaria performance registrata dall’economia italiana nell’ultimo fine settimana. E’ probabile, in effetti, che un rallentamento intervenga nel corso del 2023 ma è questo il problema italiano? O non è piuttosto il fatto che – unici, con la Grecia, fra i paesi dell’area dell’euro e dell’Unione– siamo ancora al di sotto dei livelli di reddito pro capite del 2007?

 

La miopia è una patologia seria ma, per fortuna, superabile. La politica che si straccia inutilmente le vesti in realtà avrebbe così tanto da fare, in questa fase, che dovrebbe non trovare il tempo per lamentarsi. La legge di bilancio –  prudente e responsabile – ci consegnerà nel 2023, nonostante tutto, un disavanzo pubblico pari al 4,5 per cento del prodotto. Al netto della spesa per interessi, parliamo di un disavanzo pari allo 0,4 per cento. Ipotizzando, con il governo, un tasso di interesse sul debito pubblico prossimo al 3 per cento ed un tasso di crescita nominale pari al 4,7 per cento nel 2023, possiamo dormire sonni relativamente tranquilli.

 

Il rapporto fra debito pubblico e prodotto dovrebbe continuare a scendere, anche se, con tutta l’Europa, dovessimo rallentare un pochino. Ma guardando in avanti, oltre il prossimo biennio, è lecito immaginare che le cose possano non andare così de plano. I tassi di interesse sul nostro debito potrebbero avvicinarsi al 5 per cento e, date le previsioni di inflazione, la crescita nominale potrebbe non eccedere il 4 per cento. Stando così le cose, disavanzi primari come quello previsto dalla legge in bilancio all’esame del Parlamento dovranno trasformarsi in sostanziosi avanzi se si vorrà garantire un percorso discendente al nostro rapporto debito / prodotto. Il che suggerisce che, piuttosto che lamentarsi, la politica  tutta dovrebbe fare gli straordinari per fare in maniera che le abbondanti risorse oggi ancora disponibili si trasformino in un tasso di crescita di lungo periodo  pari a quello dei nostri partner dell’area dell’euro.

 

Il compito è tutt’altro che facile: negli ultimi vent’anni, crescendo al ritmo dello 0,2 per cento all’anno, siamo stati sotto la media di circa un punto percentuale. Se i fondi europei non generassero tassi di crescita di lungo periodo – e quindi anche dopo il 2026 – pari almeno all’1,5 per cento i problemi sarebbero molto seri. Più che lamentarsi c’è da lavorare. Nel corso del 2023 dovremo rivolgerci al mercato per collocare circa 450 miliardi di euro di titoli, di cui 70 o quasi non avranno a fronte corrispondenti titoli in scadenza (e non saranno collocabili presso la Bce).

 

I segnali che di tanto in tanto vengono dalla classe politica – per fortuna, non dal Presidente del Consiglio o dal Ministro degli Affari Europei – sono tali da far pensare che la consapevolezza della intrinseca fragilità della situazione non sia diffusa. Che discutere del Mes – unici in Europa, complimenti! – quando non c’è alcun obbligo di farvi ricorso equivale a segnalare urbi et orbi che potremmo, in effetti, trovarci nelle condizioni di averne bisogno (ma che non intendiamo pagarne il prezzo). Lo spread fra rendimento dei titoli decennali italiani e corrispondente rendimento dei bund si aggira intorno ai 180-190 punti base. A poca distanza da quelli greci. Quelli spagnoli e portoghesi poco sopra i 100. C’è qualcuno qui che pensa che gli unici a preoccuparsi siano i mercati? E’ proprio così difficile contare fino a dieci prima di parlare?

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