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Basta con la sterile diatriba sul nanismo d'impresa. Essere piccoli non è una colpa

Marco Granelli

Le esportazioni delle piccole imprese sono aumentate dal 2021. Serve per valorizzarle e per farle crescere un terreno libero da ostacoli, ricco di sostegni adeguati e una visione politica orientata allo sviluppo economico

L’impresa torna al centro del dibattito politico, con la consueta scia mediatica di pregiudizi sull’eccesso di piccole aziende considerato causa della scarsa crescita economica italiana. L’analisi a firma di Roberto Mania, pubblicata il 28 ottobre sul Foglio, ripropone scuole di pensiero che meritano un approfondimento. L’impegno annunciato dal presidente del Consiglio Meloni, “Il nostro motto sarà non disturbare chi vuole fare”, sembra suscitare incomprensibili diffidenze e sospetti in chi le aziende le osserva da lontano, magari dalle aule accademiche. Ma, al tempo stesso, ha acceso le speranze proprio di chi l’impresa la fa, con passione, orgoglio e fatica, senza godere di privilegi o di assistenzialismo. 

 

Posto che ogni dimensione d’impresa ha uguale diritto di cittadinanza, varrebbe la pena chiedersi perché non si cresce e perché, negli anni, abbiamo perso così tanti big player dell’imprenditoria italiana. Non credo, certo, per la scarsa vocazione imprenditoriale degli italiani, per mancanza di talento e di creatività. E non è questione di “taglia”: piccole, medie, grandi aziende condividono lo stesso ambiente costellato di ostacoli. Soffrono tutte l’inutile e costosa burocrazia dominata dal “potere del timbro”, le lunghe attese per un’autorizzazione a operare, lo stillicidio di mille balzelli. Hanno in comune la medesima aspettativa di servizi pubblici efficienti, a fronte di tasse tra le più alte d’Europa, di certezza delle norme, di un migliore accesso al credito, di condizioni e strumenti efficaci per innovare e potenziare la qualità della propria azienda. 

 

Essere piccoli non è una colpa. Può addirittura essere una condizione ideale per competere, grazie alla capacità di realizzare prodotti unici, personalizzati, come quelli “a valore artigiano” che rendono il made in Italy inimitabile e apprezzato nel mondo. Peraltro, la rivoluzione digitale, spinta anche dalla pandemia, ha aperto nuove opportunità ai piccoli imprenditori sia per innovare i modi di produrre, sia per facilitare la promozione e la vendita sui mercati internazionali. Oggi, se sei bravo a realizzare un prodotto e un servizio e ti proponi bene sul web, c’è il mercato mondiale che ti guarda e ti sceglie. 

 

Lo dimostra il fatto che, proprio grazie a quattro milioni di artigiani e piccoli imprenditori profondamente radicati nelle comunità di cui rappresentano un fattore di sviluppo economico e di coesione sociale, l’Italia continua a essere il secondo maggior paese manifatturiero in Europa e leader globale nei settori di punta del made in Italy, dall’agroalimentare alla moda, dal legno-arredo alla meccanica. E che, a luglio di quest’anno, le esportazioni delle piccole imprese sono aumentate di 141,2 miliardi rispetto al 2021, mettendo a segno un risultato storico in termini di peso sul pil. Forse qualche merito le piccole imprese ce l’hanno visto che, tra giugno 2021 e giugno 2022, hanno garantito il 71 per cento delle assunzioni. E, se parliamo di produttività, quella della manifattura italiana, composta per il 62 per cento da imprese artigiane, nel 2021 è cresciuta del 2,5 rispetto al 2019, a fronte del calo dello 0,8 per cento delle imprese tedesche e alla flessione del 5,8 di quelle francesi. Una fonte autorevole come Eurostat certifica anche il protagonismo delle piccole imprese italiane nell’economia circolare, con un’incidenza del 73,4 dell’occupazione e del 67,6 per cento del fatturato.

 

Essere piccoli, quindi, lo ripeto, non è una colpa. Anzi. E non si cresce per decreto, ma trovando un terreno libero da ostacoli, fertile di stimoli, di sostegni adeguati, di lungimirante visione politica orientata allo sviluppo economico e all’interesse generale del paese, alimentato da equilibrate relazioni con le altre dimensioni d’impresa e con gli altri attori economici e sociali. Tutto questo per dire basta alla sterile diatriba e alle strumentalizzazioni sul nanismo d’impresa. A chi guida il paese e a chi lo osserva e lo analizza, dico che tutti gli imprenditori, di ogni settore e dimensione aziendale, devono essere considerati degni dell’attenzione necessaria ad aumentare la loro competitività. La battaglia per fronteggiare le incognite di questi tempi così difficili e per far ritrovare all’Italia la strada dello sviluppo va condotta tutti insieme, stato e imprese, senza distinzioni di “taglia”.

 

Marco Granelli
presidente di Confartigianato

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