Foto di Mauro Scrobogna, via LaPresse 

maggiori investimenti

Il governo Meloni ha l'occasione di rilanciare il Piano Amaldi sulla ricerca

Federico Ronchetti

Il progetto sottoponeva la necessità di aumentare gli investimenti per finanziare gli studi sull'innovazione con bandi competitivi e l'importanza della creazione di una rete per il trasferimento di competenze tra imprese e il mondo accademico

Da decenni la ricerca pubblica italiana chiede a gran voce alle forze politiche un intervento finanziario significativo e strutturale che purtroppo non è mai arrivato in forma organica e congrua. Spesso, anzi, abbiamo assistito a tagli lineari al finanziamento del sistema ricerca semplicemente in quanto comparto della Pubblica amministrazione, da sempre ritenuta inefficiente per definizione.


Nel 2020, la campagna per il Piano Amaldi proponeva di aumentare in 6 anni l’investimento in ricerca pubblica dallo 0,5 all’1 per cento del pil per arrivare, in termini relativi, agli investimenti della Germania. Il Piano Amaldi, poi declinato in diverse versioni, sottoponeva all’attenzione pubblica la necessità aumentare gli investimenti, in particolare, per il finanziamento di progetti di ricerca rilevanti con bandi competitivi seguendo procedure simili a quelli dei grant dell’European research council (Erc), degli investimenti per le infrastrutture scientifiche, nonché la creazione di una rete simile agli istituti tedeschi “Fraunhofer” per il trasferimento di competenze tra imprese e ricerca.

 

Un altro punto importante riguarda l’aumento del numero di ricercatori e la revisione delle procedure di reclutamento al fine di premiare effettivamente il merito ed evitare cooptazioni, connivenze e distorsioni che certamente esistono nelle procedure concorsuali. Tuttavia, pur avendo guadagnato uno spazio inedito nel dibattito pubblico (almeno per questo tipo di tematica) e l’interesse di alcuni esponenti politici di rilievo, alla fine non c’è stato alcun intervento concreto da parte dei governi Conte e Draghi in linea con le proposte del Piano Amaldi. 

 

In tempi recenti, appena prima delle elezioni politiche, diversi scienziati hanno scritto l’ennesima lettera aperta, questa volta indirizzata ai segretari e presidenti dei partiti. La lettera porta all’attenzione della politica il fatto che i fondi del Pnrr, pur avendo fornito un’opportunità, sono incanalati verso progetti che non sono affini ai temi strategici per ricerca di base; inoltre, questi finanziamenti sono limitati nel tempo. Una volta terminati i fondi del Pnrr che fine faranno i progetti iniziati? Non si rischia di creare un nuovo esercito di precari o persino una nuova ondata di cervelli in fuga? Eventualmente, quindi, su che capitoli di spesa strutturali saranno finanziate le ricerche non contemplate dal Pnrr? 

 

Anche se il dibattito politico ha finora dimenticato le tematiche relative alla ricerca scientifica, il lavoro dei promotori delle varie iniziative legate al Piano Amaldi non si è fermato: anzi dalle valutazioni qualitative e di principio si è passati a un progetto realistico articolato in un piano quinquennale dettagliato sia nei contenuti che nelle coperture finanziarie. 


Il documento è consultabile sul sito dell’Accademia dei Lincei ed è a disposizione del nuovo governo e ovviamente della ministra dell’Univerità e della ricerca Anna Maria Bernini che, volendo, già possiede una piattaforma programmatica su cui impostare, sempre che ne abbia la volontà politica, un’azione di riforma. Lo scopo del piano quinquennale è sostanzialmente in linea con le proposte formulate all’epoca dal Piano Amaldi, ossia portare il rapporto tra gli investimenti in ricerca pubblica e pil almeno allo 0,75 per cento in modo da raggiungere la Francia e avvicinarsi alla Germania, già ora all’1,1 per cento. Ricordiamo che, dopo la crisi finanziaria del 2008, i tagli al bilancio hanno ridotto il finanziamento per la ricerca di base dallo 0,64 per cento del 2009 fino allo 0,51 per cento del 2018. In parte, gli ultimi governi hanno tentato di limitare il danno e il finanziamento poi è tornato al valore del 2009. 

 

Nei prossimi due anni gli investimenti del Pnrr faranno crescere il finanziamento della ricerca fino allo 0,71 per cento del pil, quindi a valori apparentemente vicini alle richieste degli scienziati: tuttavia questo incremento è più una fiammata che un fuoco duraturo. Infatti, senza interventi strutturali e senza il cash flow del Pnrr la tendenza sarà poi al ribasso fino ad arrivare nel 2028 allo 0,55 per cento, il che ci farebbe balzare indietro ai livelli del 2011!

 

Per evitare questa regressione per la scienza italiana, ma anche e soprattutto per il sistema paese, il piano quinquennale prevede un aumento strutturale per la ricerca di base di 10,4 miliardi già a partire da questa legislatura. Inoltre, la proposta va ben oltre la questione finanziaria costituendo il documento base per Tavolo tecnico per la ricerca fondamentale presso il ministero. Ancora una volta la scienza italiana tenta di aiutare la politica a formulare una strategia di lungo periodo necessaria per il futuro del paese e delle nuove generazioni. 


L’auspicio è che il nuovo esecutivo, nella persona della premier Giorgia Meloni, faccia propria questa iniziativa includendola nel programma di governo: purtroppo però nel discorso di insediamento non si trovano riferimenti al tema in questione. Resta comunque la speranza che il governo prenda coscienza della strategicità della ricerca scientifica pubblica per l’interesse nazionale e per il ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo globalizzato. 

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