Il primo ministro indiana Narendra Modi 

Le mire della tigre: dove va la più popolosa democrazia del mondo

Stefano Cingolani

Il grande balzo dell’India di Modi per non restare dietro a Pechino. Ma contrasti e divisioni sotto la maschera nazionalista si fanno sentire

I bulldozer avanzano minacciosi, grandi elefanti meccanici lanciati contro le baracche nel quartiere islamico di Delhi. Un sole arancione appena spuntato buca la coltre di umido smog che ricopre la città nei mesi aridi. Lo spiegamento deciso dal partito nazionalista al governo, il Bjp (Bharatiya Janata Party) guidato dal primo ministro Narendra Modi, è massiccio, ma non inatteso. E non è nemmeno il primo. Con la giustificazione che quelle casette periferiche sono abusive, i terreni vengono espropriati e assegnati ai devoti induisti. Nel 2019 la Corte suprema ha deciso che le demolizioni sono un crimine, ma la proprietà deve passare a un trust indù. Una sentenza che non risolve il dilemma tra fede e diritto.

 

La mattina del 9 maggio, dunque, preannuncia un’altra giornata di sangue: in questi anni gli scontri in tutto il paese hanno provocato tra 10 mila e 17 mila morti. Invece i musulmani sorprendono tutti e si muovono come guidati dal Mahatma Gandhi. Inermi, attenti a non reagire con il classico lancio di pietre, circondano i bulldozer impedendo loro di spostarsi. I demolitori, spiazzati, si fermano e ripiegano. Sarà per un’altra volta, perché, non c’è da illudersi, l’esproprio non si fermerà, è un’arma potente e spesso efficace della pulizia etnica con la quale il partito nazionalista ha cementato il consenso sotto la bandiera di una unità religiosa fittizia, inventata, o meglio tutta politica. Così Modi vuol trasformare l’India in una potenza tinta di zafferano, il colore che fonde l’intera gamma dell’induismo: rappresenta il fuoco e l’ascesi, la purezza e la ricerca della luce (come per i buddisti), ma è anche il simbolo dei Rajput, la casta guerriera, figlia dei re. 

 

Rivale della Cina (si contendono il Kashmere) e nello stesso tempo cliente (l’interscambio è quasi raddoppiato in dieci anni), corteggiata dagli Stati Uniti in funzione anti-Pechino, attratta dalla Russia per una lunga familiarità dai tempi dell’Unione sovietica e della dinastia Nehru, nemica del Pakistan fino a rischiare un conflitto nucleare, l’India, multiforme al pari delle divinità nel Mahabharata, sta cercando da tempo il suo posto nel mondo senza mai trovarlo, come un personaggio del grande scrittore V. S. Naipaul. L’invasione russa dell’Ucraina ha accelerato questa ricerca: capire dove andrà il secondo gigante dell’Asia diventa una questione cruciale. Modi si è incontrato con Ursula von der Leyen in aprile, ha rassicurato Joe Biden, ma su Putin resta ambiguo.

 

Il boom post pandemia aiuta certamente il gioco economico. Ormai, il prodotto lordo ha superato quello degli ex dominatori britannici. Un indiano, Gautam Adani (porti, aeroporti, centri dati) è diventato, stima l’agenzia Bloomberg, il secondo uomo più ricco del mondo dopo Elon Musk, prima di Jeff Bezos e Bernard Arnault. Fa parte del cerchio magico di grandi famiglie del capitalismo come i Jindal e i Mittal, signori dell’acciaio, i Tata nell’auto, gli Ambani, re del ferro del gas e del petrolio, che posseggono la maggiore compagnia privata. Tuttavia la scacchiera più importante è senz’altro geopolitica.

  

In un incontro a quattr’occhi venerdì 16 a Samarcanda in Uzbekistan, Modi ha detto a Vladimir Putin che “questo non è tempo per la guerra, ne abbiamo parlato più volte al telefono”. Il summit della Shanghai Cooperation Organisation si è rivelato un disastro per “Mad Vlad” che ha ricevuto una reprimenda da parte di Xi Jinping, tanto da essere costretto ad ammettere pubblicamente la “preoccupazione cinese” per la guerra in Europa. Modi e Xi hanno provato a rimanere finora neutrali, anche se i loro legami con la Russia restano cruciali. Dehli e Pechino hanno aumentato gli acquisti di petrolio russo, tuttavia l’invasione dell’Ucraina ha provocato un’onda d’urto: crisi del grano e incertezza energetica rischiano di avere pesanti conseguenze. Putin ha promesso “una partnership strategica privilegiata”, l’India dubita che questo sia nel suo interesse, perché preferisce distribuire le sue carte, oggi senza dubbio migliori di un tempo, su più tavoli.

 

Le relazioni con la Cina sono segnate da tre questioni fondamentali. La prima è il divario tra i due paesi. La seconda è il conflitto sui confini. La terza è l’avvicinamento tra New Delhi e Washington che Pechino considera una minaccia. Nel 1978, quando la Cina intraprese le riforme economiche, il prodotto lordo era pressoché identico a quello indiano, oggi è almeno cinque volte maggiore. Le sole esportazioni cinesi (cresciute del 77 per cento dal 2012) valgono quanto l’intero pil dell’India. Gli apparati militari non sono comparabili per quantità e qualità. Pechino, dunque, non ha dubbi: Delhi deve accettare il ruolo di numero due, ma è proprio quello che il nazionalista Modi non vuole.

 

Uno sviluppo accelerato e un salto di qualità tecnologico sono le due armi economiche che vuol far valere per colmare in parte la distanza. Questo può essere l’anno della svolta con un’India che cresce tra l’8 e il 9 per cento e la Cina che continua a rallentare paurosamente. Lo scontro su quella che viene chiamata “Linea di attuale controllo”, insomma il confine provvisorio di 3.500 chilometri lungo l’Himalaya (l’ultima scaramuccia con pugni, calci e colpi di karate risale a un anno fa), si sta estendendo fino al mare perché la Cina ha di fatto circondato la penisola indiana con una serie di porti a Gwadar (Pakistan), Hambantota (Sri Lanka), Chittagong (Bangladesh) e Kyaukpyu (Myanmmar). Tutto ciò impatta direttamente sui rapporti con Russia e Stati Uniti.

 

Modi si è rifiutato di condannare l’invasione dell’Ucraina, ma questo non ha messo a rischio la sua partecipazione al Quad, l’alleanza con Australia, Usa e Giappone che molti considerano il nucleo di una Nato asiatica schierata apertamente per contenere l’Impero di mezzo. E Mosca? Le braccia di questa India-Kalì s’allungano, il Bnp ha preso il comando per rovesciare il sistema di potere instaurato da Nehru e dai suoi discendenti, fino all’italiana Sonia Gandhi, tuttavia i rapporti con la Russia sono bipartisan.

 

Ma esiste davvero un modello Modi? La grande espansione viene presentata dagli ideologi pechinesi come la superiorità del sistema autoritario, del comunismo di mercato. In India l’involucro democratico ha coperto un turbolento ribollire di tradizione e innovazione, di conservatorismo e modernità, che ha prodotto una lunga paralisi. Le caste sono state abolite per legge, ma continuano a segnare nel profondo la società; il pluripartitismo parlamentare ha generato prima l’egemonia del partito del Congresso, ora il predominio del partito nazional-induista dal 2014 e nessun politologo indiano prevede cambiamenti di qui alle elezioni del 2024, forse nemmeno dopo; il decentramento che consente di riconoscere le diversità etniche, culturali, religiose, ha lasciato il posto a conflitti sanguinari con i sikh, i musulmani, le minoranze che parlano urdu e tutte le altre; il ricambio delle élite, vera cartina di tornasole per le democrazie liberali, è scarso.

 

Adesso il velo di Maya è lacero e scopre i contrasti vecchi e nuovi. Modi li ha cavalcati per arrivare al potere, poi ha cercato di ricomporli sotto l’usbergo religioso, con un percorso per molti versi simile a quello di Erdogan in Turchia. Anche il leader indiano ha esordito con un bagno riformista e liberista per poi scoprire un sottofondo statal-protezionista che rischia di mettere in crisi i progressi realizzati. Le prime liberalizzazioni sono cominciate nel 1991, da allora in poi si è andati avanti tra “euforia e disperazione”, ha scritto l’Economist. “L’India un minuto è la nuova Cina, una superpotenza che scoppia di geni imprenditoriali. Il minuto dopo è una bomba demografica  a tempo incapace di generare speranze per le nuove generazioni. Nel decennio passato ha superato molti grandi paesi, tuttavia il futuro del paese è sempre oscurato da un senso di disappunto”.

 

Considerazioni che si possono estendere ben oltre l’economia: fenomeni come Bollywood non hanno prodotto grande cinema, un gruppo di eccellenti scrittori o di vere e proprie star sono diventati anche loro cervelli in fuga. E di nuovo l’India si trova a un altro dei suoi molti crocevia. La pandemia ha colpito duro con 4 milioni e mezzo di casi e mezzo milioni di morti, ma molto meno che negli Usa (95 milioni di casi e oltre un milione di decessi) o in Europa. Il paese si è rimesso in carreggiata prima del previsto e ha mostrato i segni di “una nuova formula” rispetto al passato, secondo il settimanale della City. Di che si tratta? Il motore è l’innovazione tecnologica, pochi possono contare su mezzo milione di ingegneri all’anno preparati secondo tutti i migliori crismi occidentali. E con ben cento unicorni (startup non quotate con un fatturato superiore a un miliardo di dollari) l’India è terza al mondo dopo America e Cina. 

 

Il nuovo ciclo di sviluppo si regge su quattro pilastri. Il primo è la creazione di un mercato interno vero e unico nel quale imprese e consumatori possono usare un sistema finanziario moderno. Le infrastrutture hanno dato un contributo fondamentale, quelle fisiche come strade, autostrade, ferrovie, aeroporti e quelle immateriali come una rete digitale unica creata dallo stato, vero fiore all’occhiello del governo Modi. Il secondo pilastro è l’industria. A lungo l’India ha sperato di diventare la fabbrica del mondo, ma la manifattura è rimasta rachitica, appena il 18 per cento del prodotto lordo.

 

Adesso è cominciata una fase di espansione. I grandi gruppi sono le punte dell’iceberg composto da una miriade di aziende medie e da una platea ancora più vasta di laboratori e officine. Il terzo pilastro è la tecnologia a cominciare dai servizi di telecomunicazione esportati in mezzo mondo. Ma non solo. Il paese ha investito moltissimo nelle energie alternative e i “rajah delle rinnovabili” sono diventati molto potenti. La domanda di veicoli elettrici supera ampiamente l’offerta e i produttori mondiali si fregano le mani: gli indiani sono un miliardo e 400 milioni grosso modo come i cinesi. Un altro vanto è il welfare digitale che consente l’accesso ai sostegni e a molti servizi direttamente senza passare per l’anchilosi burocratica, uno dei mali storici del paese. Circa 950 milioni di persone ne hanno beneficiato con una media di 86 dollari a testa, se si pensa che la linea di povertà è fissata a 250 dollari l’anno, non è poco. 

 

Messi in fila tutti i più, arrivano i meno. L’India dipende da un continuo flusso di capitali per far far fronte al perenne deficit nella bilancia dei pagamenti. Il sistema finanziario per quanto migliorato resta ancora arretrato. Il livello di istruzione medio è basso, in stridente contrasto con l’eccellente preparazione tecnico-superiore. E poi c’è quello che gli analisti chiamano lo stile Modi, il suo modo di governare autocratico, intimidatorio, nazional-protezionista che entra in aperta contraddizione con gli stessi conclamati obiettivi. La politica che per molti versi ha dato impulso al nuovo sviluppo ne rappresenta ad un tempo la zavorra più pesante. La guerra di religione è un instrumentum regni ed è anche la tabe che consuma la modernizzazione del paese e si estende a macchia d’olio, inquinando la stessa diaspora come dimostrano i violenti scontri in Inghilterra tra le due comunità (l’ultimo episodio a Leicester, l’8 di questo mese). 

 

L’India della dinastia Nehru era la più grande democrazia dell’Asia che guidava i paesi in via di sviluppo lungo una terza via tra capitalismo e comunismo, tra oriente e occidente. Modi non è in grado di prenderne il testimone anche per colpa della guerra in Ucraina che, invece di saldare l’asse eurasiatico contro quello atlantico, come sostengono molti geopolitici anche nostrani, ha diviso gli stessi Brics. L’acronimo è stato usato per la prima volta nel 2001 dall’economista di Goldman Sachs, Jim O’Neill, per riassumere le principali economie emergenti di allora: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Attualmente, rappresentano il 41 per cento della popolazione, il 25 per cento del pil e il 16 per cento  dei commerci mondiali. Ora potrebbero aggiungersi Iran e Argentina. Ma i loro interessi non convergono.

 

Davvero possono mettere in crisi l’Occidente euro-americano? La prima sfida strategica riguarda la moneta. Da decenni si parla di ridimensionare l’egemonia del dollaro, ora si discute l’idea di una valuta basata sulle materie prime. Da qualche anno è possibile fare trading sul mercato cinese del greggio in yuan, eppure si continua a commerciare in dollari e, con quote molto inferiori, in euro, sterline, yen, non  in yuan, rubli o rupie. La Cina ha da tempo dato vita a un suo sistema di pagamenti alternativo allo Swift, chiamato Cips. Finora vi aderiscono 1.200 istituzioni finanziarie contro le oltre 11.000 del sistema belga. Pechino può contare su un enorme bacino di risparmio privato, ma senza esportare manufatti a basso prezzo non cresce. Mosca senza i proventi delle materie prime in dollari ed euro non tira avanti. L’Iran è sotto embargo e cerca sponde, non ne offre. Il Brasile è una eterna promessa, l’Argentina un eterno pasticcio, il Sudafrica in gran difficoltà. 

 

Una divaricazione tra interessi sostanziali riguarda anche l’energia segnata da un pugno di produttori (Russia e Iran su tutti) che tiene per il collo i consumatori a cominciare dalla Cina. Per ora l’India sta nel mezzo. Il metano incide solo per il 7-8 per cento nel mix delle fonti, quello utilizzato in India è liquefatto e arriva via nave. Niente gasdotti siberiani ammesso che siano realizzabili. Il petrolio copre il 30 per cento, nel dicembre scorso Mosca ha offerto un patto di cooperazione strategica, poi ha offerto il greggio scontato del 20 per cento a un paese che estrae una gran quantità di olio combustibile.

 

Il carbone resta la fonte principale con il 54 per cento e l’India è il terzo produttore al mondo proprio del materiale più inquinante che va ridotto affinché gli stessi indiani non restino soffocati. Non sarà facile risolvere queste contraddizioni e soprattutto sarà costoso. Il Bjp cerca di alimentare la mitologia terzomondista come al tempo in cui i non allineati, alla fine, si allineavano all’Unione sovietica. Ma il futuro si gioca tra Londra e (sempre più) Washington. Modi “fa l’indiano” dicono i suoi nemici con una battutaccia, però si rende conto che un Putin regredito a pariah non è certo l’amico migliore.

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