(foto LaPresse)

Andiamoci piano con il risparmio

Antonio Pascale

Prima di parlare di buone pratiche ecologiche, di strategie per la cottura della pasta, di un grado in meno, di docce collettive, è necessario capire la lentezza delle transizioni energetiche. Non è detto che risparmiare ci faccia guadagnare

O sparagno nun è maje guadagno: che poi è un vecchio proverbio napoletano. Il senso è chiaro, non è detto che risparmiare ci faccia guadagnare. Che poi, per esempio, nella mia famiglia il proverbio veniva usato quando qualcuno doveva comprarsi un vestito nuovo e vabbè partiva subito una discussione: quello costa, meglio l’altro, non abbiamo soldi. Allora arrivava un parente o un amico che diceva: venite con me che vi porto da uno che conosco che vi fa risparmiare la metà. E si continuava così, settimane e settimane passate a valutare questo o quello o seguire il parente che ti portava da quello che conosceva lui. Finché qualcuno, sicuramente stanco dell’estenuante trattativa che nemmeno i sindacati al loro meglio sapevano mettere sul tavolo, diceva con determinata sicurezza: o sparagno nun è maje guadagno. E allora, finalmente si andava più contenti e rilassati, senza sensi di colpa supplementari a comprare ’sto benedetto vestito di buon taglio e qualità, più costoso certo, ma appunto siccome risparmiare non portava guadagno, si investiva sulla qualità: un buon vestito in fondo era quasi come un diamante, durava quasi per sempre, non dovevi comprartelo ogni anno. 

Il proverbio mi torna in mente ora che, causa chiusura rubinetti gas e conseguente effetto domino su svariati prodotti e inflazione che si prepara a scalare le classifiche, la questione risparmio si sta imponendo sui media e sui social. E abbondano proposte. Una volta serie una volta meno, una volta piccole e simpatiche, altre volte stupidaggini. Per non parlare degli sfottò, dei meme che si diffondono. Ma se invece provassimo ad affrontare con serietà la questione energetica? Se invece di scrollare compulsivamente lo schermo, alla ricerca dell’ultimo meme o dell’ultima trovata della nonna per risparmiare lo 0,001 per cento – e anche se tutti facessimo così, comunque là stiamo – noi tutti, compresi opinion maker, showman, politici e affini, provassimo a imparare almeno l’abc energetico? Sfrutterei questa possibilità ora. Perché di energia ne parleremo a lungo e meno sfondoni diciamo sui media, meglio costruiamo il nostro immaginario di riferimento. Insomma, conviene abituarsi all’idea che vista la triste situazione creata dal guerrafondaio del Cremlino, considerato che siamo 8 miliardi e andiamo per i 10, visto che il 34 e passa per cento delle emissioni di CO2 è prodotto dall’agricoltura e che però come ci piace mangiare a noi... e pure se rinunciassimo alla carne (fatta salva la sacrosanta sensibilità verso gli animali) a stento risparmieremmo il 3 o 4 per cento (se togli un alimento devi considerare le colture che possono sostituirlo e queste, per l’esistenza di molte variabili, possono essere più impattanti), visto poi che la nostra società, le nostre città, la nostra stessa ragione di vita poggia sulla materia, ovvero sull’energia qui immagazzinata. Senza energia non facciamo niente, nemmeno il libero arbitrio è possibile, visto che la volontà sarà pure una dimensione da indagare con gli strumenti dell’ontologia e della teologia, ma poi in concreto si appoggia sull’azione e l’azione sulle calorie. Le calorie vengono dal cibo. Capite bene la differenza: il cibo prodotto con i muscoli animali e umani, come è accaduto fino a metà dell’Ottocento, era poco e nemmeno così ricco, non era un super food. Quel tipo di cibo ci dava scarsa energia e scarsa forza trasformativa, nonché inventiva limitata. Hai voglia di parlare di cambiare te stesso (infatti era tutto: non avere ambizioni, gli ultimi saranno i primi” sì, forse, un giorno molto di là a venire), una cosa è il mondo della bella addormentata com’era rubricata l’Italia ai tempi della malaria (malati lasciati ai bordi delle strade, incapaci di lavorare, e non dico di domandarsi con spirito amletico chi sono io e che ci faccio qui, ma semplicemente dove sto di casa). Una cosa, al contrario, è la forza delle turbine e del vapore e ahimè del carbone; una forza che unita a poche pratiche igieniche e a due scoperte della medicina, ha trasformato il mondo, cambiato il cibo in meglio.  Portato il nostro pianeta a sopportare altri e più abbondanti passi e impronte. Da un miliardo di persone a 8 miliardi di persone (i bambini non muoiono più e noi viviamo più a lungo). Un mondo, comunque, dove almeno le ambizioni di guerra (spesso portate avanti dalla necessità di trovare altra terra, per altro cibo e per altre calorie) sono in gran parte venute meno.

Insomma, visto e considerato che l’energia è tutto, forse conviene prendere sul serio la questione energia. Siccome risparmiare non porta guadagno, per riprendere il discorso di cui sopra, che ne dite se facciamo la tara delle molteplici carinerie green da social e da influencer e ci occupiamo – cioè studiamo – con seria metodologia science based, come investire e spendere in energia? Cioè, nella sostanza, quali strumenti accogliere e quali scartare perché poco efficaci. Nella fattispecie, quali sono le stupidaggini messe in rete per amore di like e non di scienza che dandoci l’illusione di risparmiare non cambiano nemmeno per idea il vestito che indossiamo e quindi alla fine sempre gli stessi figuri siamo? Che ne dite? Per esempio, potrebbe essere un buon proposito  quello di smetterla con le parole amebe, tipo bio, sostenibilità, green, eco friendly e fare seriamente i conti con la limitata materia e dunque con la non infinita energia in essa stoccata. Parlare di cose tecniche è fondamentale, soprattutto in campo energetico. Ci vogliono coraggio e tempo e pazienza, sia da parte di chi insegna sia da parte di chi apprende, Coraggio, tempo e pazienza: qualità indispensabili e lussuose. Prima per imparare l’abc (la differenza tra energia e potenza, quanto consuma una lampadina e quanto una città, quanto consumano la Francia e la Germania e quanto l’Africa), poi per maneggiare con più sapienza gli indispensabili strumenti tecnici (cosa è una turbina efficiente, un agrofarmaco, un concime, un biostimolante). Dunque,  come una squadra compatta e allegra, darsi da fare per consegnare ai posteri una goccia di splendore energetico. Perché qui prima di parlare di buone pratiche ecologiche, di strategie per la cottura della pasta, di un grado in meno e di docce collettive, è necessario capire la lentezza di certe transizioni energetiche. Purtroppo, i piccoli gesti, se da una parte aiutano di certo all’attenzione e predispongono, si spera, a uno studio più approfondito della materia energetica, purtroppo, quei piccoli gesti, come il piccolo risparmio, non portano un grande guadagno.  Il vero nodo da affrontare è infatti la lentezza delle transizioni energetiche. Della due parole, transizione è quella più complicata. Scrive Vaclav Smil che i numeri non mentono (che poi, invece di usare amuleti e rosari e Padre Pio e storie social, ma perché mai i politici non leggono libri seri, li studiano e si fanno un’idea precisa?): “Nel 1800 solamente il Regno Unito e una piccola parte dell’Europa e del nord della Cina adoperavano il carbone per generare calore. Il 98 per cento dell’energia primaria era ricavato dalle biomasse, in particolare dalla legna e dal carbone vegetale”. Un secolo dopo, nel 1900, vuoi l’uso crescente del carbone, vuoi la formidabile sequenza di scoperte, avvenute negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, dall’elettromagnetismo con tutte le sue ricadute tecniche, fino alla bicicletta, solo metà dell’energia primaria era ottenuta con le biomasse. Nel 1950 le biomasse contribuivano ancora per quasi il 30 per cento. Nel 1992 “i combustibili fossili costituivano l’86 per cento dell’energia primaria consumata a livello globale. Nel 2017, hanno inciso per l’85 per cento, una riduzione di un misero 1,5 per cento”. Capite il dramma, cioè la lentezza? Capite che enorme processo dobbiamo affrontare? Altro che piccolo risparmio, qui si tratta di portare avanti investimenti milionari, in tutti i campi. Prendete un’azienda storica, la Valagro (ora nel gruppo Syngenta). Da anni studiano i biostimolanti, quelle formulazioni (composte da varie molecole di origine naturale) che aiutano la pianta a sopportare stress vari. Per esempio, nei periodi di siccità riescono a rafforzare alcuni meccanismi fisiologici della pianta che, sorpresa, invece di ridurre la produzione la incrementa. Pensate che bel concreto risparmio d’acqua. Ebbene, per investire in ricerca e poi far approvare queste formulazioni con un lungo inaudito iter burocratico, si arriva a spendere 200 milioni di euro. Investimenti e lungimiranza, non piccolo risparmio quotidiano. L’immaginario che invece si sta creando è pericoloso proprio per questo motivo: ci disabitua alla complessità. Più precisamente, in campo energetico, ci disabitua a guardare tutta la lunga catena che lega la materia a uno strumento energetico e quello strumento a noi. Questo mondo – che ci piaccia o no – questo mondo sfruttato, contestato ma goduto appieno, è fondato su quattro pilastri: cemento, plastica, acciaio e ammoniaca. Questo mondo è ancora tenuto in piedi dal fossile. Abbandonare il fossile sarà una sfida bella e necessaria, fondamentale e probabilmente entusiasmante, ma lunga e costosa. Per questo è importante porsi obiettivi realistici: intanto perché nel sano realismo c’è maggior conoscenza e precisione e conseguente impegno, e poi perché l’energia costa, cioè lavorare stanca, pure immaginare, anche investire, soprattutto costa la transizione energetica, perché richiede investimenti energetici. Non singoli ma del mondo, che dovrebbe giocare in armonia e lealtà. E infine perché il grande problema che abbiamo davanti non è mettere su un impianto energetico costituito da energie green, bio ecc., per far bello il consigliere, il politico, l’influencer di turno. Il grande problema è slegare quell’impianto dal carbone. Ancora oggi per ricavare elettricità dal vento servono combustibili fossili. Sembra un controsenso, puntiamo tutto sulle energie rinnovabili, fotografiamo bei paesaggi dove le pale girano. Eppure, le turbine stesse sono l’emblema dei combustibili fossili. Grandi camion portano l’acciaio e altre materie prime sul sito di costruzione, macchine in movimento a terra tracciano i sentieri, spesso in posti impervi per poi posizionare le pale. Dice sempre Smil, considerato tutto il processo: “Per una turbina da 5 megawatt, servono in media 150 tonnellate di acciaio, solamente per le fondamenta in calcestruzzo. La produzione di acciaio è uno dei pilastri che fonda il mondo moderno (gli altri sono l’ammoniaca, la plastica e il cemento e tutti e quattro si fondano ancora per l’85 per cento su combustibili fossili) e nella fattispecie necessita di un grosso quantitativo di energia: minerali ferrosi che hanno subìto un processo di sinteraggio e di pellettizzazione sono fusi all’interno di un altoforno caricato a carbone”. Insomma, fatti i conti, per costruire il numero di turbine eoliche utile a soddisfare la domanda di energia da qui al 2030 – secondo i calcoli di Smil – c’è bisogno di 600 milioni di tonnellate di carbone. E questo senza considerare altri indispensabili processi. Come per le turbine eoliche così è anche per tante altre pratiche, ritenute di primo acchito sostenibili. Capite allora che diventa necessario formare una generazione di persone che non si limitano a urlare sostenibilità a tutto spiano, o peggio che propongono i rimedi della nonna, ma tecnici, ricercatori, insomma cittadini sensibili al tema e dotati di sano realismo, grazie al quale analizzare la complessità di un processo. La variopinta materia che costituisce la realtà. Insomma, non farla facile, ma misurare con fatica e attentamente e con buona capacità comparativa, addendo per addendo, così da ottenere un risultato più preciso. 

E’ difficile, ma è una grande occasione che abbiamo tutti per il bene di tutti: capire la materia e i processi di cui sono i fatti i nostri sogni e solo dopo attenta misurazione, visti i dati, etichettarli come sostenibili o meno. Altrimenti saremo sempre in balìa di quel mio parente che riteneva di conoscere uno che ti faceva risparmiare, in genere uno che ti rimbambiva di belle parole e ti rifilava un pacco, una sola. Comunque la vogliate chiamare, poi di quello si trattava.

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