(foto Ansa)

Trieste naviga al futuro

Dario Di Vico

I 450 licenziamenti a sorpresa di Wartsila sono un campanello d’allarme sulla globalizzazione. Ma il post Ucraina (e anche il climate change) sono grandi opportunità. Il problema è ringiovanire un po’

L’annuncio dei 450 licenziamenti della Wärtsilä è stato uno choc per Trieste. Lo stabilimento in questione è l’ex Grandi Motori Fiat, uno degli insediamenti storici dell’industria giuliana. Da qualche mese le Rsu aziendali sospettavano una mossa mancina ma il management (italiano) dell’azienda finlandese aveva smentito ogni voce di disimpegno sia al ministro Giancarlo Giorgetti sia al governatore Massimiliano Fedriga. All’improvviso però è cambiato il vento e si è capito il perché: il governo di Helsinki ha chiesto alla Wärtsilä di fare reshoring e di produrre in patria i grandi motori navali che nel frattempo saranno green e – guarda un po’ – finanziati da aiuti statali. Il quotidiano Il Piccolo ha dedicato alla notizia bomba sette pagine e ha invitato la gente a scendere in piazza (“l’avete fatto a migliaia durante la scellerata protesta dei no vax e adesso dove siete?”). Giulio Sapelli, storico e gran conoscitore delle vicende giuliane, ha aggiunto il carico mettendo in relazione la vertenza Wärtsilä con un’autorità portuale incapace di essere “un diffusore di crescita” e addirittura “burocratica”. Ma è davvero così? Il reshoring finlandese segna la crisi di Trieste e del modello porto-centrico che si è andato affermando negli ultimi anni? O i licenziamenti triestini sono in prevalenza un frame delle contraddizioni di Helsinki che cerca la tutela della Nato, vuol diventare campione della sostenibilità e riscopre gli aiuti di stato in barba alle regole che si è data la Ue?

 

La verità è che effetto choc e analisi avventate hanno origine in una sorta di paradosso: la città baciata dalla globalizzazione che viene colpita dalla delocalizzazione. Può sembrare uno scioglilingua ma è la contraddizione in cui sarà costretta a dibattersi Trieste finché non si vedrà una luce nel tunnel Wärtsilä. Finlandesi a parte, negli ambienti della logistica internazionale si è convinti dell’idea che la globalizzazione per la città di San Giusto si riveli comunque un gioco a somma positiva: si prosegua secondo il vecchio schema del mondo piatto alla Friedman o alla fine abbia ragione Janet Yellen con il suo friendshoring, Trieste è consapevole che la sua favorevole posizione geografica non la tradirà.

 

L’evoluzione geopolitica. Andrea Illy: “E’ una città di confine multinazionale come poche, sono fiducioso” 

 

Spiega l’imprenditore Andrea Illy: “Per Dna è città di confine e multinazionale come poche, ha dietro di sé l’ampio retroterra industriale del nord-est e soprattutto è il porto meridionale della Mitteleuropa. In più per tutte le merci che dall’Asia arrivano da Suez è l’occasione unica per risparmiare giorni di viaggio. Non so nella nuova mappa geopolitica del mondo che ruolo potrà avere, ma sono fiducioso. In fondo noi triestini, nel bene e nel male, siamo abituati a convivere con l’idea che possa esistere una cortina di ferro”. Non a caso i cinesi l’avevano individuata come uno snodo decisivo della costruenda Via della Seta e avevano dato grande risalto al memorandum interstatale firmato dai due paesi nel marzo 2019 al tempo del governo Conte 1 (un giorno Luigi Di Maio ci racconterà come è andata davvero?). E ancora non c’è da stupirsi che, pur essendo radicalmente cambiate le carte in tavola in questo anno e mezzo, la Cosco – la compagnia cinese che in Italia ha già messo un piede a Vado Ligure – abbia deciso comunque di scegliere il porto giuliano come porta d’accesso all’Europa centrale per organizzare 4 treni a settimana diretti a Budapest. Era impossibile dire di no alla principale compagnia mondiale di navigazione commerciale, e così l’intesa è stata battezzata dalle autorità locali e da quelle di Roma ma – dettaglio importante – al momento della foto finale Fedriga si è dileguato lasciando sotto i flash l’assessore regionale Graziano Pizzimenti.

 

Per capire dove va Trieste lo spartiacque è ovvio che sia l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe che ha segnato una data clou anche per il porto, che pure la sua scelta filo occidentale l’aveva già fatta privilegiando i tedeschi della Hhla di Amburgo come azionisti della sua piattaforma logistica al posto di China Merchants. “Dal 24 febbraio non si torna indietro – sostiene Zeno D’Agostino, presidente dell’autorità portuale, considerato uno dei maggiori esperti italiani di logistica – Stiamo andando verso blocchi autoreferenziali, è la globalizzazione della domanda che alla fine condiziona quella dell’offerta”. C’è una nuova idea di localizzazione della manifattura, il just in time non va più di moda, si rifanno le scorte e siamo di fronte a una schizofrenia del sistema dei trasporti. “Se un’azienda deve scegliere le aree della fornitura non va più sull’Asia e non solo per questioni geopolitiche ma anche per l’efficienza logistica. Suez è considerato comunque un problema”. Un collo di bottiglia come si usa dire nel gergo che è divenuto popolare dopo l’interruzione delle catene dovuta alla pandemia.

 

Zeno D’Agostino, presidente dell’autorità portuale, spiega come il porto generi anche innovazione

 

Scrutando il mare da Trieste si arriva addirittura a prevedere che la Cina non ha o non avrà più il ruolo di prima. “Tra 10-15 anni non viaggeranno tutte le merci che vengono movimentate oggi. Diventano più importanti le navi traghetto che trasportano i Tir rispetto ai container, la Cina giocoforza si ridimensiona e crescono invece di ruolo aree come la Turchia, dove non a caso Ikea si è già rilocalizzata con tempismo”. Sono mutamenti strutturali, il commercio che una volta assicurava la pace oggi cammina in prevalenza dentro il perimetro dei blocchi per minimizzare i rischi geopolitici e quelli logistici. Continua D’Agostino: “Il ruolo del Mediterraneo è destinato a crescere. E Trieste può approfittare della necessità del sistema di disporre di trasporti più veloci e sostenibili rispetto alla condizione di passare lo stretto di Gibilterra e scaricare le merci sui grandi porti del nord. Ma anche sull’accorciamento delle catene il Mediterraneo ha un ruolo. I nuovi paesi produttori diventano Turchia e Marocco”. Il presidente dell’autorità portuale allarga poi la sua riflessione al combinato disposto tra logistica e climate change. “Gli esperti sottolineano i rischi di abbassamento del pescaggio nei porti del nord Europa, i porti fluviali come Amburgo faticano perché scende il livello dell’acqua e nei vecchi canali che aiutano il porto di Rotterdam succede qualcosa di analogo”.

 

Guai a sostenere però che Trieste abbia tutte le fortune del mondo (comprese le acque profonde e la zona franca), l’ottimismo giuliano non vuol vivere di sola rendita di posizione. Per D’Agostino, infatti, un porto non è un luogo dove si caricano e scaricano merci, ma molto di più. A sentirlo parlare, un porto assomiglia a un’agenzia di sviluppo, a un incubatore di innovazione, persino a un think tank geopolitico. “E’ chiaro che Trieste punta a recuperare navi e traffico destinati ai paesi del centro Europa che passando dall’Adriatico arriva prima a destinazione, ed è scontato che lavoriamo perché subito dopo il porto queste merci trovino un sistema di strade ferrate efficienti, ma un porto oggi è qualcosa di più. Il valore si crea sperimentando l’idrogeno o gestendo i cavi sottomarini che portano i dati. E’ scattato un paradigma nuovo e siamo ai primi passi. Possiamo dare un contributo persino per desalinizzare l’acqua del mare”. Intanto la partnership con Amburgo va avanti e si lavora sodo, “perché i tedeschi hanno capito che il futuro è scommettere sul sud Europa”. Hanno anche loro dei rapporti diretti con Cosco, presente nel loro terminal più piccolo, ma a Trieste persino Taiwan ha comprato il vecchio Lloyd Triestino tramite la Evergreen. E sul molo ci sono tutti i terminalisti occidentali. Per ora, dunque, pur avendo le mappe geopolitiche ben in testa, per non sbagliare, i commerci sembrano assicurare scelte win win. Vista da Trieste la globalizzazione non prevede perdenti, alla faccia delle raffinate analisi di Branko Milanovic.

 

Paolo Possamai, ex direttore del Piccolo, racconta  l’imago urbis:  Nettuno e Mercurio, il mare e il commercio

 

Del resto un libro appena uscito di Paolo Possamai, ex direttore del Piccolo, racconta come l’imago urbis la si possa rintracciare proprio nel numero incredibile di statue o effigi di Nettuno e Mercurio, il mare e il commercio, che sono le vere presenze immanenti di una città laica e parca di statue di santi. Nettuno e Mercurio sono in fondo i garanti del patto sociale e multietnico che ha garantito coesione e rispetto tra le diverse etnie – italiani e sloveni in città si sfiorano ma non si toccano – e quella lunga scia di benessere e convivenza ha funzionato grazie al porto, l’oro di Trieste. Quando in stagioni passate la preziosa infrastruttura di mare è stata lasciata vivacchiare o quando comunque non se ne erano intraviste le potenzialità i mali della città sono venuti a galla. Proprio Sapelli ha raccontato in un testo degli anni 90 il ritorno di Trieste all’Italia e come quella che avrebbe dovuto essere una cavalcata trionfale, alla fine aveva tradito il Dna multinazionale della città. Il libro racconta come il passaggio di Trieste dai “ceppi austriacanti” avrebbe dovuto essere una liberazione e dischiudere alla città un futuro luminoso e come invece siano state numerose “le tappe ingloriose” di un successo annunciato e mai colto. Dall’italianizzazione delle banche alla persecuzione degli ebrei, dal crollo delle grandi famiglie fino proprio al declino temporaneo del porto.

 

Si discute ancora se un certo assistenzialismo, sempre presente nella vita della città e garantito dalle erogazioni di mamma regione autonoma, sia l’eredità di quelle scelte sbagliate o della maledizione che ha finito per colpire tutte le città delle Partecipazioni statali, con lo svuotamento degli animal spirit e la prevalenza del sussidio. Secondo Andrea Illy, “purtroppo Trieste-città ha sviluppato una forte tendenza conservatrice, ha coltivato una chiusura su se stessa. Come se volesse mantenere inalterato uno status quo fatto di un’alta età media (260 anziani ogni 100 giovani, ndr) e di una diaspora dei giovani talenti. E’ l’altra faccia dell’intraprendenza del porto e del suo ruolo globale. Una contraddizione che andrebbe sanata”. Ma come? Per Illy sviluppando il terziario della conoscenza, soprattutto in chiave ambientalista, e per questa via attrarre dalla Mitteleuropa non solo merci ma anche intelligenze. Nell’attesa che il sogno si avveri Trieste continuerà a vivere una scissione tra economia e politica, tra flussi inseriti nell’economia globale e qualità provinciale della vita amministrativa. E sul breve attenderà, forse in piazza, l’esito della vertenza Wärtsilä. La beffa del reshoring che si infila come un coltello nella storica divaricazione tra richiesta di protezione e fiducia nelle virtù di Nettuno & Mercurio.