Il vaglio europeo

Perché sulla rete unica convincere l'Ue non sarà una passeggiata

Sergio Boccadutri e Carlo Stagnaro

Il governo ragiona di nuovo sulla rete unica per la banda larga (anche se il ministro Colao la chiama "rete all'ingrosso"), ma Bruxelles potrebbe avere da ridire per la riduzione, rispetto a oggi, della concorrenza infrastrutturale. L’assenza di concorrenza infrastrutturale può avere effetti sulla determinazione degli interventi manutentivi, primari e secondari.

A che punto è il progetto di rete unica a banda larga? La questione sembrava passata in secondo piano a causa delle vicissitudini societarie di Tim e delle oggettive difficoltà tecniche e finanziarie del progetto. Recentemente, però, c’è stata un’accelerazione da parte del governo. Ne ha parlato lo stesso ministro della Transizione digitale Vittorio Colao nella lunga intervista concessa al Foglio. In tutti i paesi europei, e anche in Italia, le reti di telecomunicazioni sono in pancia a operatori verticalmente integrati. Inoltre, almeno nei territori più densamente abitati, gli operatori hanno nel tempo realizzato reti alternative. Infine, nel nostro paese a partire dal 2016 sono stati varati bandi per garantire la copertura della banda ultralarga sull’intero territorio nazionale. I bandi sono stati vinti da Open Fiber, società costituita ad hoc con un forte coinvolgimento pubblico. Da tempo, però, si è affermata una sorta di contro-narrazione secondo cui la concorrenza infrastrutturale – che precedentemente era considerata positiva – è percepita come fonte di duplicazioni e costi. Da qui nasce la spinta verso l’unificazione delle reti e la creazione di un monopolio artificiale dove, invece, c'è concorrenza naturale. Colao risolve questo problema, anzitutto, con una scelta terminologica: invece di “rete unica” parla di “rete all’ingrosso”, neutrale rispetto agli altri operatori (che offrono anche o solo servizi). Eppure questa “rete all’ingrosso”, nei fatti, sarebbe comunque “unica”. Per esempio, se la rete all’ingrosso consente di “evitare duplicazioni di investimento nelle zone ricche” si sta affermando nei fatti la volontà di impedire la presenza di una pluralità di infrastrutture persino nelle aree (quelle “nere”) dove diversi operatori possono trovare profittevole realizzare ciascuno una propria infrastruttura. Il paradosso è che si andrebbe a intervenire pesantemente sulla governance e la struttura del mercato in aree che finora non sono state (giustamente) interessate da politiche specifiche, perché l’offerta di connettività era ritenuta adeguata. Anzi, si ha quasi la sensazione che la volontà sia quella di frenare un mercato che offre “troppo”. Porre poi l’attenzione sul fatto che altre zone, “meno ricche”, sarebbero invece trascurate in termini di investimenti infrastrutturali dovrebbe condurre a una seria autocritica. Il Piano per la banda ultralarga, varato nel 2016 e confermato o rafforzato da tutti i successivi governi, puntava a consentire anche a chi vive o opera in quelle zone di avere una connessione veloce e di qualità. Il ministro Colao non ha alcuna responsabilità sui ritardi, ma chi “è arrivato dopo” dovrebbe capire cosa e perché non ha funzionato. Pretendere ogni volta di ripartire da zero rischia di generare solo illusioni. L’esito dell’operazione sulla “rete all’ingrosso” non è comunque scontato anche per la natura dei diversi soggetti coinvolti, come ha aggiunto in altre occasioni lo stesso Colao. Quando (e se) l’operazione inizierà a delinearsi più concretamente, sul tavolo della Commissione europea, aldilà di ogni disquisizione terminologica, arriverà un progetto di “rete unica”. E qui Bruxelles potrebbe avere da ridire per la riduzione, rispetto a oggi, della concorrenza infrastrutturale. Forse in Italia abbiamo cambiato idea, ma in Europa no. Nel quadro attuale, sia per il modello di business di Open Fiber, sia per gli obblighi di Tim di garantire accesso alla rete in modo non discriminatorio, la concorrenza sui servizi è comunque assicurata. Non conosciamo come reagirà la Commissione e cosa potrebbe eventualmente imporre per mantenere comunque un livello di concorrenza infrastrutturale, almeno nelle aree nere. Questo è un elemento che non può essere sottovalutato, per evitare di perdere ancora tempo rispetto a quella che, giustamente, Colao indica come una priorità del Paese. Inoltre, la costituzione di una “rete unica” corrisponde alla creazione di un quasi monopolio nell’offerta di accesso alla rete. Senza adeguati correttivi regolatori potrebbero esserci altre criticità. Infatti, l’assenza di concorrenza infrastrutturale può avere effetti sulla determinazione degli interventi manutentivi, primari e secondari. Quelli primari riguardano la manutenzione straordinaria: attività di sostituzione della fibra per via dei processi di decadimento. Quelli secondari hanno a che fare con la manutenzione ordinaria, per esempio gli interventi sulle centraline nelle quali ogni operatore di servizi installa i suoi apparati. Una unica società delle reti, anche per la gestione del personale, potrebbe discriminare gli interventi a livello “geografico”, prediligendo  aree più vantaggiose sotto il profilo della domanda. Per questo la Commissione potrebbe imporre obblighi ulteriori al fine di rispettare determinati standard di qualità.
 

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