Una manifestazione dei Fridays for Future a Milano a marzo (Ansa) 

L'insostenibile sostenibilità. Tutti la invocano, in pochi sanno come ottenerla

Stefano Cingolani

La crescita, l'agricoltura, il lusso. Tutto dev’essere sostenibile. C’è il rischio di trasformarla in un’etichetta vuota. La nuova rivoluzione del capitalismo cominciata in sordina trent’anni fa ed esplosa nel secondo decennio di questo secolo, è anche lei in un circolo reso ancor più vizioso dalla guerra. Indagine

I lettori che, in un rovente sabato di giugno, fossero sfiorati dal desiderio di leggere queste colonne dovrebbero chiedersi se sono interessanti, ben confezionate, attendibili nell’informazione, coerenti nella loro argomentazione. Ma forse, ancor prima di ogni altra cosa, se sono sostenibili; non le tesi esposte, gli strumenti usati e gli spazi occupati. Sono state scritte su un computer portatile di penultima (o forse anche terzultima) generazione, quindi hanno consumato più energia rispetto ai laptop nuovi di zecca. Una volta stampate, son guai: l’inchiostro, la carta, la fabbrica, roba da seconda rivoluzione industriale. Meglio farle apparire solo su uno schermo, tuttavia anche in questo caso bisogna calcolare il tempo di lettura, la luminosità, il consumo della batteria, l’elaborazione di dati, la banda, la rete e via di questo passo. Vogliamo occuparci del mantra socio-economico-culturale dei nostri tempi e ci chiediamo quanto sia davvero sostenibile la sostenibilità: così la rendiamo ogni minuto meno sostenibile di quanto dovrebbe essere, ammesso che il quanto si possa stabilire una volta per tutte misurandolo con sufficiente certezza. Ecco, siamo finiti in un vicolo cieco e non sappiamo come uscirne. Perché la nuova rivoluzione del capitalismo cominciata in sordina trent’anni fa ed esplosa nel secondo decennio di questo secolo, è anche lei in un circolo reso ancor più vizioso dalla guerra.

 

Tutto dev’essere sostenibile. La crescita? Se non è sostenibile, non è. L’agricoltura, il cibo, le bevande, il vino, il whisky (è sfida tra Scozia e Giappone), insomma un elenco infinito. Il turismo? Altro che, altrimenti come facciamo senza più i russi lungo le spiagge (anch’esse sostenibili d.o.c.g.). Il lusso, non ne parliamo nemmeno. Deve essere sostenibile scavare un tunnel (e non perché la roccia non deve crollare), tirar su un grattacielo, mettere su strada un’automobile. Sembra ormai una moda, mentre la forma pura e vuota sta fagocitando il contenuto. Se ogni cosa viene considerata sostenibile, nulla lo è per davvero; allora è solo greenwashing, una spolverata ecologica e via? Prima se lo chiedevano gli eco-scettici, oggi se lo chiedono le borse, le autorità regolatorie, chi controlla la qualità e la veridicità delle etichette verdi di ogni sfumatura. S’è creata una pletora di standard tale che l’Organizzazione internazionale delle commissioni borsistiche (IOSCO è l’acronimo inglese) si è messa al lavoro per identificarne i tratti comuni, con l’obiettivo di trovare una griglia che consenta di comparare le diverse imprese e capire quale s’è messa solo una bella maschera. Il segretario generale Paul Andrews sostiene che è un lavoro da certosini, per molti versi simile a quello realizzato diversi decenni fa per la finanza, ma non è in grado di dire se mai sarà possibile arrivare a un modello simile. I pragmatici inglesi sostengono che bisogna passare dalle definizioni ai risultati. I grandi investitori internazionali si sono concentrati finora sull’identificare gli standard Esg (Enviromental, Social and Governance), convinti che la trasformazione globale del sistema energetico e produttivo rappresenti la più grande opportunità di business della storia moderna. E’ arrivato il momento di andare al sodo, classifiche e punteggi ci dicono soltanto quello che le imprese intendono fare, spiega Ben Caldecott, direttore del Centre for Greening Finance and Investment britannico. “Se una società sostiene che il suo proposito è combattere la deforestazione, ottiene un buon punteggio, anche mentre sta abbattendo le foreste”. Dunque, la quarta rivoluzione industriale rimane vittima di se stessa e delle proprie illusioni. Il rischio c’è, per capirlo dobbiamo tornare all’inizio della storia.

  

Un rapporto dell’Onu dell’87 lega la definizione di sviluppo sostenibile ai bisogni della generazione presente e quelli delle generazioni future

  

Profitto viene da proficere. Letteralmente significa avanzare, progredire, ottenere risultati. Non è soltanto lucrum, guadagno, o quaestus, cioè un’occupazione che dà frutto, sia esso in denaro o in potere. Questa componente di progresso e mutamento fa parte della idea positiva del guadagno che nel tardo medioevo, dai francescani alla scuola di Salamanca, s’impone sull’idea negativa di usura. Solo per citare alcuni nomi, Luis de Molina, Bernardino da Siena o Antonino da Firenze, che Joseph A. Schumpeter colloca tra i fondatori dell’economia scientifica, in barba a Max Weber e alla sua teoria dell’etica protestante come fondamento dello spirito capitalistico. Accanto al profitto c’è lo scopo. In inglese, profit e purpose, le due P che per Milton Friedman sono una contraddizione in termini perché lo scopo di ogni iniziativa economica è uno solo: fare profitto. Ma c’è davvero un unico modo per farlo? La British Academy in un rapporto pubblicato nel 2019 definisce i princìpi per un purposeful business, cioè le linee guida di imprese basate sullo scopo, il cui obiettivo sia “risolvere i problemi facendo profitto e non fare profitto causando problemi”. Nel pieno della grande crisi Nicolas Sarkozy, allora presidente francese, aveva chiamato tre star della teoria economica, come Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, a presiedere una commissione con l’obiettivo di cercare un indice non solo del prodotto lordo, ma del progresso sociale. Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in veritate aveva rilanciato l’economia sociale di mercato. Più radicale papa Francesco in Laudato si’ con una idea di progresso influenzata fortemente dalla cultura e dalla realtà di un uomo di Chiesa venuto dall’altro capo del mondo, come disse Jorge Bergoglio di se stesso.

 

È sempre più evidente che la transizione digitale entra in conflitto con quella ecologica. Sappiamo quanta elettricità si consuma con WhatsApp?

 

La definizione oggi universalmente riconosciuta di sviluppo sostenibile risale al 1987 e si trova nel Rapporto della commissione sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, presieduta dalla norvegese Gro Harlem Brundtland, dal titolo “Our common future”. La sostenibilità è la condizione di uno sviluppo in grado di “assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Non c’è progresso né benessere senza tre sostenibilità: ambientale, sociale, economica. Più  tardi viene aggiunta anche quella culturale. L’Onu comincia a elaborare questo paradigma dagli anni 90. Due o tre crisi dopo (una nel 2008-2010 davvero distruttiva) sembra arrivato il tempo di passare dalla teoria alla prassi. Ed è la grande finanza a suonare il gong, a cominciare da Laurence Douglas Fink detto Larry, il quale nel 1988 ha fondato BlackRock, il fondo di investimento che gestisce diecimila miliardi di dollari. “Siamo alla vigilia di una completa trasformazione delle fondamenta stesse della finanza moderna”, scrive nella lettera inviata ai clienti all’inizio del 2020, annunciando che al centro della sua strategia ci saranno gli investimenti “responsabili” soprattutto per affrontare il cambiamento climatico. Fink si spinge ancora più in là e parla di combinare il perseguimento del profitto con obiettivi di lungo termine a forte contenuto sociale: “Utili e scopo non sono affatto in contraddizione, anzi risultano indissolubilmente legati tra loro – sostiene. Gli utili sono essenziali, se una società deve servire efficacemente tutti i suoi portatori d’interesse nel tempo, non solo gli azionisti, ma anche i dipendenti, i clienti e la comunità. Lo scopo guida la cultura, crea un quadro di riferimento per un processo decisionale coerente e contribuisce, in ultima analisi, a sostenere i rendimenti finanziari”. Il suo mantra è “capitalismo responsabile e trasparente”. 

 

La lettera di Larry Fink, fondatore di BlackRock, a inizio 2020: perseguire il profitto con obiettivi di lungo termine a forte contenuto sociale

  

Solo belle parole? Un’autodafé per emendare i peccati del bankster? Guardiamo un po’ alle cifre. I flussi finanziari indirizzati verso la nuova economia sono diventati sempre più ingenti nei primi vent’anni di questo nuovo secolo. Il fondo sovrano della Norvegia, tra i più grandi e importanti al mondo, ha deciso di fare solo “investimenti sostenibili”; anche la Scottish Widows (le vedove scozzesi), storica icona della finanza di massa, ha cambiato le sue priorità. Dal fondo pensioni giapponese alle banche svizzere, dall’antesignana Levi Strauss alla BP (acronimo per Beyond Petroleum, oltre il petrolio), dai Rockefeller a Prada, insomma tutti, poco prima che scoppiasse la pandemia, si stavano allineando al nuovo modello di sviluppo: digitale, verde, responsabile, insomma sostenibile. Il Covid-19 non ha fatto da freno, ma da acceleratore, si pensi al boom del digitale nel lavoro come nel divertimento, o al cambio di priorità: dai consumi individuali a quelli collettivi, dalle spese futili alle spese sanitarie, dalla distruzione di risorse alla loro conservazione. Resilienza è lo slogan sulla bocca di tutti. Ma che cosa significa in pratica, vuoi vedere che “ognun lo dice e nessun lo sa”?

Il contrasto più evidente è tra la sostenibilità forte e quella debole. Quella forte paradossalmente esclude l’uomo: l’equilibrio ideale è realizzato dalla natura senza intervento antropico. Una ideologia spaventosa. Per fortuna è prevalsa la variante “debole” e l’umanità non è stata eliminata, almeno finora. La teoria della decrescita felice è influenzata dalla concezione più radicale che contesta la regola elaborata dall’economista John Hartwick secondo la quale un sistema è sostenibile se il consumo non decresce nel tempo e il sovrappiù dei ricavi rispetto ai costi di produzione – generato dalle risorse non rinnovabili – viene risparmiato e reinvestito in “capitale artificiale” (lavoro, impianti, infrastrutture), mantenendolo in equilibrio con il “capitale naturale”. Una babele teorica, disquisizioni da sesso degli angeli, mentre emergono le contraddizioni reali. 

Prendiamo la transizione digitale: è sempre più evidente che entra in conflitto con la transizione ecologica. Non abbiamo idea di quanta elettricità si consumi per inviare una foto su WhatsApp. Ogni giorno in Italia circa 80 milioni di smartphone vengono caricati. Ogni smartphone e tablet consuma mediamente intorno ai 15 Wh al giorno. Secondo una stima sul consumo medio per elettrodomestici, condotta da Facile.it, una famiglia di quattro persone consuma mediamente 3.600 kWh per l’utilizzo annuale di due televisori, due computer, due condizionatori, frigorifero, lavastoviglie, lavatrice e scaldabagno elettrico. Una giornata di smartphone in Italia equivale quindi al consumo energetico annuale di 33 famiglie tipo. Secondo un rapporto del think tank Shift Project, le tecnologie digitali sono responsabili del 4 per cento delle emissioni di gas serra, una cifra che potrebbe raddoppiare già entro il 2025. Ma anche qui c’è chi la spara più grossa: nel 2040 l’impatto del digitale arriverà al 14 per cento delle emissioni globali di CO2. E in un mondo tutto elettrico, di quanta energia avremo bisogno? Eliminando i combustibili fossili non basterà tappezzare il Sahara di pannelli solari. E non trascuriamo la grande questione distributiva. La sostenibilità per chi? E’ un affare da ricchi? In un articolo del Financial Times si è messo in dubbio che l’Africa possa mai svilupparsi anche in termini sostenibili, senza risorse energetiche fossili, quelle oggi disponibili facilmente e, nell’insieme, più a buon mercato.

 

La guerra in Ucraina ha aumentato il bisogno, nel breve e medio termine, di investire in più fonti energetiche sia tradizionali sia rinnovabili

 

Poi è scoppiata la guerra con l’invasione russa dell’Ucraina e anche Larry Fink ha moderato i suoi entusiasmi. Intanto ha deciso di non appoggiare le risoluzioni sul cambiamento climatico se saranno troppo estreme e prescrittive. La distruzione del flusso globale di materie prime ha aumentato il bisogno, nel breve e nel medio termine, di investire in più fonti energetiche sia tradizionali sia rinnovabili. Il boicottaggio di risorse russe ha rincarato i costi per miliardi di consumatori diffondendo le richieste di utilizzare non solo petrolio e gas provenienti da altre aree, ma anche carbone, la fonte più inquinante proprio mentre governi e imprese avevano imboccato il lungo percorso per lasciarsi alle spalle gli idrocarburi e tutti i combustibili fossili. La contraddizione implicita nella complessità di definire, misurare, verificare e soprattutto realizzare uno sviluppo sostenibile viene esasperata dal conflitto armato, tanto da innescare una consistente marcia indietro. Nel breve termine, ha detto Fink a Davos, la guerra rallenta il percorso verso zero emissioni nette di anidride carbonica, nel medio periodo induce a ripensare la globalizzazione, oltre ai tempi e modi della Grande Trasformazione. BlackRock non chiude le porte, anzi conferma il suo sostegno a ogni business che punti ad abbattere la CO2 e individua tre tipi di investitori da finanziare: quelli che cercano di navigare su questo mare in tempesta gestendo i rischi e cogliendo le possibilità; quelli che cercano di accelerare il cambiamento aumentando gli investimenti anche a costo di andare contro corrente; quelli che puntano sull’innovazione, finanziando la prossima generazione di tecnologie. Non è possibile stabilire chi prevarrà, è probabile che le imprese, a cominciare dalle grandi multinazionali, cercheranno un mix flessibile tra i tre gruppi. 

 

C’è sempre spazio per i visionari e Larry Fink ha intenzione di sostenerli, ma oggi primum vivere o piuttosto in tempi di guerra, primum vincere. Siamo entrati nel regno di Behemoth, il mostro biblico antagonista del Leviathan, menzionato nel libro di Giobbe. Per Thomas Hobbes il primo era il simbolo del caos e della  guerra di tutti contro tutti, il secondo dello stato sovrano che garantiva l’ordine e la legge. Ora non c’è nessuna legge che possa fermare Vladimir Putin e nessun governo mondiale che la faccia rispettare. Che cosa vuol dire allora sostenibilità? Non è sostenibile né per l’ambiente né per la pace mondiale comprare il petrolio e il metano del Cremlino, ma per tener fede all’embargo e non cedere al ricatto putiniano non ci sono oggi abbastanza fonti rinnovabili, quindi bisognerà usare gas, petrolio e anche carbone. Le quattro sostenibilità definite dall’Onu entrano in contraddizione, compresa quella culturale, dove la cultura significa valori universali e diritti dell’uomo. Purtroppo saranno i disastri della guerra a rimettere in fila ancora una volta sia le categorie del pensiero sia i modelli politico-sociali. E “noi che abbiamo voluto preparare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili”.

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