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La guerra, l'economia e la differenza tra una frenata e un crollo

Stefano Cingolani

Inflazione, petrolio, pil, borse. La vera notizia è il sistema che regge nonostante l'invasione dell'Ucraina

Ripetere il celeberrimo calembour di Mark Twain, usato e abusato, non è elegante, ma non c’è nulla di più adeguato per rispondere agli alti lai che si levano da ogni dove. Dunque, la notizia di una recessione che colpisce i paesi industrializzati, l’Italia in testa, già prostrati dalla pandemia, dall’inflazione e dalla guerra, è quanto meno esagerata. Lo ha detto Mario Draghi la settimana scorsa: la recessione è stata evitata; oggi come oggi, del domani non c’è certezza, molto dipende a questo punto dalle follie di Vladimir Putin, e dai possibili errori di una politica che non tiene i nervi saldi, a cominciare dalla politica monetaria. Il mercato, questa volta, non c’entra. 

Le banche centrali vengono attaccate perché si sono lasciate sfuggire i prezzi e da molte parti si chiede una stretta. La Federal Reserve l’ha cominciata, anche se si muove con prudenza, la Bce è sotto la martellante propaganda degli ortodossi i quali non vendono l’ora di uscire dalla “terra incognita” nella quale ci ha portato quel mattacchione di Draghi. Ma cosa avrebbero detto lorsignori se fosse arrivata, come essi volevano, una stretta proprio mentre zar Vlad preparava la sua invasione dell’Ucraina? Come avrebbero reagito di fronte a un crollo provocato dalla riduzione della quantità di moneta?

Dunque, guai a uscire dal sentiero draghiano nell’area euro e guai a farsi prendere dalle ansie elettorali negli Stati Uniti: i democratici perderanno pure le elezioni di mid-term a novembre, l’importante è che Joe Biden non perda la testa.

 

Diamo un’occhiata alle variabili principali cominciando dalla crescita. La Commissione europea ha tagliato le stime dell’Eurozona per il 2022 dal 4 per cento atteso a febbraio al 2,7 per cento (l’Italia è al 2,4 per cento). L’inflazione salirà invece al 6,1 per cento, contro il 3,5 previsto. Per l’Fmi l’economia mondiale crescerà in media del 3,6 per cento: gli Usa vanno un po’ meglio (+3,7 per cento), l’Eurozona è al 2,8 per cento, l’Italia poco meno (2,3 per cento), la Cina si fermerà al 4,4. Scorrendo la tabella del Fmi troviamo il segno meno solo in Russia (-8,5 per cento) e nei paesi emergenti dell’Europa (-2,9 per cento in media) iper-dipendenti da Mosca. Putin trascina nel gorgo i suoi ex satelliti, non l’odiato occidente. Insomma, siamo di fronte a una frenata non a un crollo. Il pil non si riduce, rallenta il proprio ritmo. La crescita zero non c’è, quindi parlare di stagnazione è scorretto.

 

Se sorpresa deve esserci, riguarda la tenuta del sistema, mentre è in corso una guerra selvaggia nel cuore dell’Europa e sono state comminate sanzioni economiche mai così pesanti contro un grande paese. Punti di vista, il bicchiere è mezzo pieno? Rispetto agli anni 70 del secolo scorso, dopo la guerra dello Yom Kippur e l’embargo petrolifero deciso dagli sceicchi, oggi sono noccioline. Una delle ragioni è che i paesi industrializzati consumano quattro volte meno idrocarburi per lavorare, viaggiare, riscaldarsi, rispetto ad allora. Tecnicamente si chiama efficienza, potremmo anche definirla innovazione tecnologica accelerata proprio in risposta a quella crisi.

 

Nessun “suicidio energetico” caro circo mediatico-putinista, semmai è la Russia che non può rinunciare alla sua unica risorsa strategica. Non manca il petrolio, anzi ce n’è tanto. Il prezzo in un anno è salito del 74 per cento, però i 110 dollari al barile non sono affatto eccezionali: nel 2008 costava 147 dollari per tornare sopra i 90 dollari dal 2011 in poi. In ogni caso, se calcolato senza la rivalutazione monetaria e in relazione all’insieme dei prezzi, l’oro nero vale meno che negli anni 70. 

Anche il gas è abbondante. Dalla Siberia continua a fluire senza riduzioni sensibili, la novità è che siamo in presenza di un aumento sia della quantità sia del prezzo, in contrasto con i princìpi della domanda e dell’offerta. Dunque è pura speculazione? In realtà si dovrebbe parlare di aspettative. Il rialzo dei prezzi dell’energia è cominciato in autunno per colpa delle strozzature produttive, con una domanda esplosa all’improvviso dopo la pandemia e un’offerta che non riusciva a starle dietro. Dopo l’invasione dell’Ucraina l’attesa di tempi peggiori ha dominato i mercati delle materie prime. A questo s’aggiunge per il gas un meccanismo dei prezzi (non sono fissi nemmeno per i contratti trentennali con Gazprom) definiti dalle contrattazioni al Ttf (Title Transfer Facility, il mercato all’ingrosso olandese) che seguono un indice mensile concordato in anticipo. Insomma a maggio stiamo pagando un prezzo che rispecchia la situazione di marzo quando le aspettative erano pessime.

Un problema di quantità si presenta sul mercato del grano per l’interruzione delle esportazioni ucraine e in parte russe, seguita dal blocco deciso dall’India, secondo produttore mondiale, che vuole preservare le proprie scorte. Janet Yellen, segretario al Tesoro americano, ha messo in guardia da una crisi alimentare mondiale. I future a Chicago e a Parigi sono arrivati ai massimi da marzo. I paesi colpiti seriamente sono soprattutto quelli in via di sviluppo e principalmente nordafricani. L’Egitto, grande consumatore e grande importatore, in questo momento soffre di più. Senza evocare il terzo cavaliere dell’apocalisse in sella al cavallo nero, non c’è dubbio che bisogna compensare il grano che non arriva dalle pianure sarmatiche o dalla penisola indiana.

 

Toccherà anche questo agli Stati Uniti? Siccome l’economia è una disciplina comportamentale, diamo un’occhiata alle borse. Wall Street ha toccato il picco mentre era in corso l’invasione dell’Ucraina: 35.200 punti per l’indice Dow Jones a marzo, scesi fino a 31.730 il 12 maggio per risalire a 32.600. In Europa il Ftse 100 era al minimo il 7 marzo (6.064), oggi è a 7.521. Il Dax di Francoforte è passato da 12.831 a 14.200. Vuoi vedere che gli europei sono più ottimisti degli americani? L’inflazione preoccupa, ma non allarma (a noi indebitati fa persino bene) e alla recessione le borse non credono. Certo, le incognite sono molte, quella cinese è più pericolosa per l’economia di quella russa. La nuova fiammata del Covid, il rallentamento della crescita, la bolla immobiliare, debiti elevati e probabilmente incontrollati, un’inflazione effettiva che nessuno conosce, tensioni ormai evidenti nella piramide del potere: che succede se il colosso dell’Asia comincia a mostrare i suoi piedi d’argilla? Finiamo con questo interrogativo, anche per non essere accusati di inguaribile ottimismo.
 

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