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assolti in appello tutti gli imputati

Inchiesta su Mps, lo scandalo inventato della banca degli scandali

Alberto Brambilla

Criminalizzazione, incapacità di fissare reati solidi, vaghezze nel plot che ha travolto tutto, anche una vita umana. Arriva la decisione del tribunale, ma in questo mega-scandalo nulla si tiene

La Corte d'appello di Milano ha assolto l'ex presidente di Banca Mps Giuseppe Mussari. In primo grado, l'8 novembre 2019, Mussari era stato condannato a 7 anni e 6 mesi e in appello la procura generale di Milano aveva chiesto di confermare la condanna con riduzione della pena a 6 anni e 4 mesi per intervenuta prescrizione di alcuni episodi. Il processo, arrivato oggi alla sentenza di secondo grado - di assoluzione per tutti gli imputati - è relativo a una serie di operazioni finanziarie realizzate dalla banca senese per coprire, secondo l'accusa, le perdite provocate dall'acquisto di Antonveneta. I reati ipotizzati nei confronti di tutti gli imputati nel processo sono, a vario titolo, manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all'autorità di vigilanza. In particolare, al centro del procedimento ci sono i derivati Santorini e Alexandria, sottoscritti da Mps con Deutsche Bank e Nomura e che, secondo l'ipotesi accusatoria, sono serviti a nascondere la reale situazione finanziaria della banca senese e in particolare le perdite causate dall'operazione di acquisto di Antonveneta

Pubblichiamo di seguito l'inchiesta di Alberto Brambilla su Monte dei Paschi di Siena uscita sul Foglio del 22 maggio 2013. 

 


 

Per oltre quattro mesi, i media hanno bombardato milioni di italiani con informazioni allarmanti sul cosiddetto “scandalo derivati” al Monte dei Paschi di Siena, col risultato di affossare ancora di più il terzo polo bancario nazionale. Organi di stampa, telegiornali, radio, hanno trattato il caso giudiziario senza dividere i fatti accertati dalle ricostruzioni di vario genere, impastandoli con le esigenze di parte in un avvelenato finale di campagna elettorale.

E allora tutto si confonde: i battibecchi politici gonfiano la bolla derivata e “nella nuova Tangentopoli che sta terremotando l’Italia, lo scandalo del Montepaschi diventa ogni giorno più torbido” (Massimo Giannini, Repubblica), coltivato nell’humus della “finanza opaca e massonica” (Antonio Padellaro, il Fatto), per poi assumere “dimensioni colossali” (Radio24) finché “il tritacarne giustizia” fa “la prima vera vittima del caso Mps” (Libero), il direttore della comunicazione e marketing David Rossi, l’ultimo senese doc ai vertici della banca, morto suicida ai primi di marzo.

Sono state raccontate vicende diverse, ricostruite sulla base di inchieste giudiziarie tuttora in corso. Vicende che di certo si inseriscono in uno strutturale malgoverno dell’istituto bancario, ma che messe insieme senza criterio hanno anche dato l’impressione di un disastro economico e finanziario senza precedenti, del calibro di fallimenti epocali come quello di Lehman Brothers: attraverso ricostruzioni viziate da pregiudizi moralistici sulla finanza in quanto tale. La vicenda di Mps è stata anche paragonata a “crac” societari evocativi per il pubblico di cui è puntellata la storia del più provinciale capitalismo italiano, come la bancarotta fraudolenta della Parmalat. I numeri sulle perdite, almeno all’inizio, sono solo stime; e quando si ingigantiscono diventano supposizioni da confermare. I teoremi giornalistici si sono fatti evanescenti con la morte di David Rossi: il caso di cronaca nera ha stimolato conclusioni frettolose e casuali, con una certa sindrome complottistica, fino a trasformare un suicidio in un probabile assassinio, senza alcuna prova a conforto.

I giornali hanno coperto lo “scandalo” con una produzione di articoli senza precedenti riguardanti Mps. Da gennaio fino a domenica scorsa i primi otto quotidiani nazionali per copie vendute hanno pubblicato una media giornaliera di 2,5 articoli con la parola “Mps” associata a “scandalo” (300 in 117 giorni, nei quattro mesi precedenti sono stati 135 quelli relativi al Monte, poco più di un terzo). Una sovrapproduzione che è il frutto non tanto della necessità di portare un fatto all’attenzione del pubblico, quanto invece il risultato dell’artefatta relazione viziosa tra una stampa a vocazione diffamatoria e una magistratura affamata di rivalsa purché sia. Una magistratura per giunta incurante delle conseguenze negative di decisioni forse troppo affrettate e di certo basate su teorie avulse dalla realtà giuridica internazionale, al fine di ottenere un’immediata soddisfazione economica per Mps e di appagare la montante “sete di giustizia” generata nell’opinione pubblica dalla bulimia dello stesso circo mediatico-giudiziario.


 
La versione del circo mediatico e quella dei fatti

Lo “scandalo” – è stato battezzato tale dal primo momento dal circo mediatico-giudiziario – esplode il 22 gennaio quando il Fatto quotidiano pubblica in prima pagina il solito leak, una parte dell’inchiesta della procura della Repubblica di Siena relativa a un’operazione di ristrutturazione di titoli derivati tra Mps e due banche internazionali, la tedesca Deutsche Bank e la giapponese Nomura. Una miccia, si dice con sospetto nei palazzi romani e nelle banche d’affari milanesi, innescata forse da Antonio Ingroia e Luigi De Magistris, due magistrati entrati in politica, e con quali risultati si sa. Per altri, la velina è arrivata direttamente da dentro la banca. Il risultato non cambia: a trentatré giorni dalle elezioni nazionali viene irrimediabilmente indebolito il Partito democratico, i cui vertici, i quadri, fino alle mezze tacche sono da sempre legati a doppio filo a Mps o alla città di Siena; una relazione vantaggiosa per tutti – con il beneplacito per niente disinteressato del Pdl – e in essere da quando il Monte era una banca locale e la sinistra si chiamava Partito comunista italiano (che nella Siena priva di una classe operaia prendeva il 58 per cento, come neanche a Reggio Emilia). I giornali e le televisioni cavalcano la succosa storia bancario-politica, in rari casi diradando la nebbia sul caso derivati, in altri – ben più numerosi – alimentando invece, grazie a quel pretesto, la confusione su responsabilità e numeri.

Sono state divulgate diverse cifre sull’entità delle perdite, e in seguito sono state corrette dai fatti. Secondo il racconto mainstream, le perdite sui derivati viaggiano inizialmente attorno ai 500 milioni, una perizia affidata a consulenti esterni arriva poi alla stima di 720 milioni, ma succede che, per via degli effetti ipotizzati sul bilancio, degli strascichi dell’azzardata acquisizione di banca Antonveneta (all’epoca definita una “conquista” dall’autorevole Repubblica) su cui pende il sospetto di una maxitangente, il “buco” può arrivare a 14 miliardi; almeno secondo le stime di un discusso ex funzionario di Dresdner Bank, Antonio Rizzo, rilanciate dai media. Il tiro al “trilione” ha più recentemente autorizzato Beppe Grillo a parlare di perdite da 28 miliardi di euro. Le perdite messe a bilancio dalla banca a fine 2012 raggiungono nel complesso – quindi con le sofferenze, gli incagli, il calo della raccolta, eccetera – i 3,2 miliardi di euro e, secondo il management, adesso i conti sono stati “ripuliti” perché scontano gli aggravi delle operazioni finanziarie. Operazioni finanziarie, cioè quelle di ristrutturazione dei derivati, che alla fine hanno generato perdite effettive per 730 milioni, più delle stime iniziali: ma è questa la cifra di uno scandalo? Non proprio. Soprattutto perché si sta parlando di contratti tra banche private siglati con l’intento di ridurre il rischio patrimoniale nel portafoglio di investimenti di Mps; una ristrutturazione.

I derivati sono strumenti finanziari che hanno come “sottostante” altri prodotti, dai mutui alle azioni (il mercato dei derivati è il più grande del mondo ma non è strettamente regolato dalle autorità internazionali). In generale, i derivati sono delle scommesse sull’andamento di prodotti venduti sui mercati, e per questo sono considerati rischiosi.

Nel caso di Mps le perdite accertate per Alexandria, il derivato oggetto della ristrutturazione realizzata con Nomura, e Santorini, quello con Deutsche Bank, ammontano complessivamente a 730 milioni di euro, stando all’ultimo bilancio. La cifra è in sé scandalosa? Il “crac” del Banco Ambrosiano ha rivelato un buco di 1,2-1,3 miliardi di dollari pari a 1.937 miliardi di lire, a valori attuali poco più di un miliardo di euro. E’ stato definito “il più grave dissesto finanziario di una banca italiana”, un primato che il Banco Ambrosiano conserva tuttora. Mps è stata accostata anche a Parmalat, uno scandalo societario foriero di perdite per centinaia di migliaia di risparmiatori. In Mps non si parla di fallimento, né di una truffa ai danni dei clienti, ma di un’operazione finanziaria tra banche private finita male per via dell’aumento della rischiosità dei titoli di stato italiani che erano l’oggetto dello scambio, ad esempio, tra Mps e Nomura. Lo scambio poteva anche essere vantaggioso per Mps in condizioni normali di mercato. Non è andata così e lo stato ha dovuto incrementare le risorse per sostenere Mps attraverso i Monti bond, ma si tratta di prestiti contro interesse. Se fosse accaduto il contrario, qualcuno avrebbe anche applaudito il bistrattato management di Mps. In ogni caso, non è la prima volta (e non sarà neanche l’ultima) che un’operazione finanziaria si rivela perdente: MF Global, una società americana di brokeraggio, è finita sott’acqua nel novembre 2011 per lo stesso motivo del Monte ma non aveva un salvagente statale a tenerla a galla.

 

I derivati non sono un crimine

L’ultimo atto della “scandalosa disputa” è l’ordine di sequestro preventivo da parte della procura di Siena per 1,8 miliardi di euro – una cifra arbitraria perché frutto di una media matematica – ai danni della banca giapponese Nomura, “rea” a parere dei pubblici ministeri Giuseppe Grosso, Antonino Nastasi e Aldo Natalini di essersi avvantaggiata dall’operazione di ristrutturazione degli strumenti derivati che Mps aveva in pancia (“I conti truccati e il contratto nascosto”, lo scoop del Fatto). Il problema è che il reato non sussiste, si tratta appunto di un contratto regolare, come se ne fanno a centinaia tra banche e banche, e che forse non stava nemmeno “nella cassaforte”, come si è scritto, ma che – stando a indiscrezioni – avrebbe invece passato i controlli interni in Mps, oltre al fatto che gli effetti potenzialmente negativi per i conti bancari erano noti almeno dall’autunno scorso anche a Roma: a novembre infatti il governo tecnico guidato da Mario Monti aumenta la somma stanziata per il prestito a Mps, i cosiddetti Monti bond, di 500 milioni portandola a un ammontare complessivo di 3,9 miliardi; una decisione presa dopo precedenti verifiche interne in Mps sull’impatto delle ristrutturazioni dei prodotti finanziari. Verifiche avviate dal nuovo amministratore delegato del Monte, Fabrizio Viola. Ma per capire la debolezza dello scandalo finanziario bisogna tornare a qualche anno indietro.

Nel 2005 Mps acquista “un’obbligazione emessa dal veicolo Alexandria” costruito dalla banca tedesca Dresdner Bank, come dicono i magistrati nel decreto di sequestro preventivo. (Giuseppe Mussari non era ancora presidente della banca senese, lo diventerà nell’aprile del 2006. All’epoca era a capo della Fondazione Monte Paschi ma ciò non lo discolpa dalla mala gestio della banca di cui è il principale artefice).

Il derivato “Alexandria” perde la metà del suo valore in meno di tre anni – in mezzo c’è il fallimento Lehman Brothers – e alla fine del 2009 vale circa 200 milioni di euro dai 400 milioni iniziali. Mps avrebbe dovuto mettere tali perdite in un bilancio già dissanguato dall’acquisto azzardato di Antonveneta: una banca italiana comprata alla spagnola Banco Santander formalmente per 10,3 miliardi (compresa la controllata Interbanca) quando ne valeva 6,6; il prezzo pagato da Santander alla Abn Amro pochi mesi prima. All’epoca Mps non voleva essere aggredita da altre banche italiane, quando il sistema era in pieno riassetto e consolidamento, così, con un atteggiamento difensivo, ha fatto il passo molto, troppo, più lungo della gamba; secondo un’informativa interna e anonima, tra il 2008 e il 2009 sono però partiti otto bonifici da Mps per oltre 17 miliardi complessivi, sarebbe il valore reale dell’acquisto: è tra questi che gli investigatori cercano la famosa “tangente”.

Senza utili Mps avrebbe fatto mancare agli azionisti, in primis la Fondazione, un dividendo che sarà di 1 centesimo per azione; non se lo poteva permettere perché la Fondazione incarna consenso pubblico e politico. Mps va alla ricerca di una banca d’affari in grado di tamponare l’impatto del derivato. Per sei mesi prova a convincere Jp Morgan, che di Mps è anche azionista, ma la banca americana rifiuta. E’ quella giapponese Nomura a decidere di avviare l’operazione di conversione del rischio – in gergo tecnico “repo to maturity”, cioè assorbimento dei derivati in cambio di titoli a lungo termine – che serve a Mps per spostare le perdite più in là nel tempo. Nomura compra quindi il derivato per 400 milioni (la cifra iniziale pagata da Mps) ma chiede una commissione più alta del normale: applica un tasso di 60 punti base maggiore rispetto a quello di mercato fissato tramite il tasso interbancario Libor, pari a 200 milioni, al fine di non dovere incamerare le perdite che Mps stessa stava accusando. In cambio, con un’operazione di scambio di titoli (“asset swap”), Mps ottiene titoli di stato italiani, 3 miliardi di Btp a trent’anni “spostando” così il rischio in portafoglio da un “rischio corporate”, cioè finanziario, a un “rischio sovrano”, legato al debito statale. In teoria, è un approccio più conservativo dal momento che il mercato delle obbligazioni di stato garantisce un buon ritorno e un riparo dalle turbe del mercato. Le trattative tra Mps e Nomura si concludono con una conferenza telefonica tra i responsabili delle due banche: Nomura invia con anticipo le richieste al management di Siena, che di conseguenza ha preparato le risposte; Mussari è digiuno di inglese e anche di derivati, a detta di persone che hanno lavorato con lui (sebbene avesse scritto un capitolo di un libro sul tema ai tempi dell’università). Al telefono Mussari risponde come gli viene consigliato assicurando di avere compreso le condizioni contrattuali (lo chiede esplicitamente il capo europeo di Nomura, Sadeq Sayeed) e conferma che la società di revisione Kpmg è stata messa al corrente dell’operazione. I funzionari di Kpmg però negheranno questa circostanza di fronte alla Consob.

L’operazione con Nomura poteva essere addirittura vantaggiosa per Mps – era stata costruita per questo – ma così non è stato: l’investimento in bond si è rivelato fallimentare per due motivi. Da un lato, l’aumento dello spread tra i titoli decennali italiani e gli omologhi tedeschi verificatosi nell’estate 2011, fino al picco di 575 punti base di novembre, ha ridotto i margini di guadagno. Dall’altro lato, sempre a novembre, la European banking authority (Eba) ha imposto alle banche europee di svalutare i titoli sovrani in portafoglio, penalizzando gli istituti italiani e spagnoli; quelli più carichi di bond delle rispettive nazioni. Un istituto finanziario americano, MF Global, si è trovato nella stessa situazione di Mps per alcune operazioni di “repo to maturity” sfortunate che ne hanno comportato il fulmineo fallimento proprio nel novembre 2011. Ne rende conto il blog finanziario Zero Hedge, compilato da trader e banchieri sotto anonimato: lo scenario del dissesto di MF Global è simile a quello di Mps con “la differenza” che la banca senese ha ricevuto “un provvidenziale aiuto dallo stato per evitare un collasso repentino e, di fatto, l’effetto contagio sul sistema bancario nazionale ed europeo”.

Il sequestro preventivo chiesto dalla magistratura – se dovesse avvenire – avrebbe poi un risvolto sistemico negativo. I magistrati parlano di 1,8 miliardi da sequestrare a Nomura, ma è una somma arbitraria che gli stessi giudici considerano frutto di una media. 1) Ritengono che Nomura si sia avvantaggiata guadagnando 88 milioni sulle spalle di Mps, ma sono in realtà delle commissioni per l’operazione. 2) I giudici intendono poi sequestrare 1,495 miliardi, cioè il “collaterale” che Mps mette a garanzia dell’operazione con Nomura, la quale potrà dunque pretenderlo in caso di un eventuale fallimento di Mps. La cifra (1,4 miliardi) è per i magistrati una media tra il valore minimo del collaterale di 595 milioni (al 28 settembre 2009) e il massimo di 2,4 miliardi (16 maggio 2012), somma che cambia su base giornaliera perché Mps deve depositarla a titolo di compensazione al variare quotidiano del valore del derivato. Per questo l’ammontare esatto del sequestro, anche per i giudici, risulta inafferrabile. Congelare tale somma manderebbe l’operazione in default, annullando così in anticipo il contratto tra le parti, tuttora in essere. E’ un rischio per gli investitori, come evidenziato da Forbes, perché aggredire un “collaterale” significa rivalersi su una garanzia e non su una somma di cui qualcuno è effettivamente proprietario.

Aprire una breccia giuridica vuol dire, inoltre, rendere incerto l’esito di queste operazioni tra soggetti privati già avviate in tutto il mondo (se un giudice può pretendere un collaterale, non esiste garanzia sulla durata del contratto stipulato tra due parti). Nomura è poi una banca particolarmente sistemica per l’Italia, un fatto che i funzionari governativi conoscono. E’ la banca attraverso la quale il governo giapponese e la sua banca centrale ordinano l’acquisto di titoli sovrani. Secondo quanto ricostruito dal Foglio, Nomura ha acquistato almeno 20 miliardi di bond italiani. Un danno reputazionale dovuto allo “scandalo mediatico” rischia di indebolire l’istituto nipponico minacciando la sua presenza in Italia e di conseguenza la possibilità per il nostro paese di godere della liquidità garantita dal nuovo corso iper espansivo della Bank of Japan. I dirigenti della banca giapponese non vogliono parlare né a Tokyo, né a Londra né a Milano: per policy tengono un basso profilo. Il direttore finanziario, Shigesuke Kashiwagi, su pressione degli analisti in una conference call del 26 aprile, si è limitato a considerare l’azione della magistratura “ingiustificata” precisando che dalla banca non usciranno altri commenti sulla questione. Il sequestro non è stato convalidato dal giudice per le indagini preliminari di Siena, Ugo Bellini, perché non sussiste il reato di “usura” contestato a Nomura. I pubblici ministeri hanno però presentato ricorso al tribunale del Riesame, creando così un conflitto interno al Palazzo di giustizia senese. Non è chiaro, inoltre, perché la tedesca Deutsche Bank non sia stata né perquisita né inquisita dal momento che anch’essa aveva stipulato un contratto di conversione del rischio con Mps per il derivato “Santorini”, che aveva invece come “sottostante” alcune azioni Intesa Sanpaolo.

Se la colpa è quella di avere portato la finanza speculativa all’interno del Monte, le persone su cui puntare il dito sarebbero diverse. A cominciare dal finanziere Vincenzo De Bustis. De Bustis è entrato in Mps dopo l’acquisizione sovrapprezzo, risalente al 1999, di Banca del Salento da lui amministrata. Una banca che prometteva di diventare una “banca online” senza esserlo davvero; cambia poi nome in Banca 121 e infine viene incorporata nel Monte. Banca 121 rifilava ai risparmiatori mutui mascherati da piani di risparmio (My Way e 4 You), che fecero perdere ai clienti oltre due miliardi di euro. Secondo indiscrezioni, fu sempre De Bustis a chiamare a Siena Gianluca Baldassarri, l’ex capo dell’Area finanza di Mps, ora agli arresti – a oggi è l’unico finito manette. (Formalmente Baldassarri è stato selezionato da una società di consulenza per ottenere l’ingaggio in Mps). Baldassarri è accusato di avere chiesto e ottenuto delle “stecche” per un’operazione di “riacquisto titoli” tra Dresdner e Mps nel 2007 da girare sul conto della finanziaria di Lugano Lutifin, come ricostruito dal nucleo di polizia tributaria di Milano. Gli investigatori stanno battendo anche la pista del paradiso fiscale di San Marino, oltre a quella Svizzera, coinvolgendo altre persone, compreso il finanziere Roberto Villa, già noto per il dissesto del ceramificio Richard Ginori da lui rilevato attraverso un’altra società elvetica. “La banda del 5 per cento” (così era già conosciuta anche nella City di Londra) di cui facevano parte Baldassarri e Marco Pontone, altro dirigente sotto accusa, si è intascata una “provvigione” di 600 mila euro sull’ammontare complessivo dei titoli ceduti a Mps, pari allo 0,5 per cento (che non sia il “5 per cento” esatto come da leggenda è solo un dettaglio). Le indagini sono ancora in corso, lo spettro delle ricerche degli investigatori si sta ampliando. Secondo indiscrezioni, l’area controlli interni di Mps era comunque a conoscenza della cattiva fama di Baldassarri grazie a delle informative di alcuni dipendenti, i quali anziché essere promossi per avere scovato la mela marcia sono stati demansionati se non addirittura licenziati durante la presidenza Mussari.

 

Perché lo scandalo “mediatico” è più dannoso di quello finanziario

Il risultato dello scandalo mediatico crea un caos (questo sì) senza precedenti dopo anni di silenzi su quanto succedeva in Mps: i principali quotidiani nazionali avevano già le adeguate informazioni inviate da coraggiosi blogger senesi ma le hanno tenute nei cassetti. Lo “scandalo” ha semmai aggravato notevolmente la posizione finanziaria del Monte dei Paschi, la disgraziata banca più antica del mondo guidata per sei anni in maniera personalistica dall’ex presidente Giuseppe Mussari, di professione avvocato. Mussari è un banchiere che in molti vorrebbero vedere dietro le sbarre ma che per adesso, dopo un periodo di depressione successivo alle forzate dimissioni da presidente dell’Associazione bancaria italiana, si dedica da indagato a ricercati esperimenti culinari nella sua tenuta di Villa Agostoli, vicino Siena. Cercare di risollevare Mps è un compito che le autorità di vigilanza con la spinta del Pd (“Il presidente del Monte lo abbiamo cambiato noi”, disse Massimo D’Alema lo scorso gennaio) hanno affidato ad Alessandro Profumo, il quale finora – dichiarazioni d’intenti a parte – ha annunciato tagli al personale (4.600 posti al netto dei prepensionamenti) e ultimamente ha avviato l’esternalizzazione di alcuni servizi bancari oltre a ridurre le spese per il mantenimento e la funzionalità delle strutture senesi: meno pulizie dei locali, bandita la stampa dei documenti su carta. Arrivato nell’aprile 2012, Profumo è intenzionato a procedere con la ristrutturazione dell’istituto, sempre se non verrà interrotto dalla giustizia: la procura di Bologna ha richiesto il rinvio a giudizio per il banchiere accusato, insieme ad altri, di evasione fiscale quando era amministratore delegato di Unicredit. Secondo l’accusa, sotto la guida di Profumo, tra il 2007 e il 2009, la seconda banca nazionale avrebbe sottratto al fisco 745 milioni di euro, ai quali corrispondono tasse non pagate per 246 milioni, con la cosiddetta “operazione Brontos” facendo passare per dividendi (tassati al 5 per cento) gli interessi (tassati al 100 per cento) su una transazione in valuta estera, e incassando così un “guadagno” del 95 per cento. I nuovi vertici di Unicredit hanno patteggiato ma i “brontos” (il nome che Barclays aveva dato all’operazione fatta con Unicredit) perseguitano Profumo che si è detto dall’inizio “sicuro della correttezza di ogni mio operato”.

L’effetto dello scandalo è stato dirompente per la banca senese. A gennaio il titolo in Borsa, in declino costante da due anni, viaggiava sui valori massimi dall’aprile 2012, ma è crollato a 0,16 centesimi per azione esattamente un anno dopo arrivando vicino al minimo storico. L’effetto scandalistico ha generato anche una consistente migrazione di correntisti verso altre banche. Secondo l’amministratore delegato, Fabrizio Viola, il “danno reputazionale” sarebbe quantificabile in “diversi miliardi”, almeno dieci secondo fonti interne alla banca. La cifra è ufficiosa e, forse, anche prudente. Le banche concorrenti, Intesa Sanpaolo e Unicredit, non forniscono informazioni sul flusso dei correntisti e men che meno sulla loro provenienza. Per avere contezza della fuga di risparmiatori è perciò utile guardare alle banche più prossime a Mps come ChiantiBanca, banca toscana attaccata al territorio. “L’istituto viaggia al ritmo di oltre 5.000 nuovi clienti l’anno, 1.400 ogni tre mesi, come confermano i dati del primo trimestre 2013”, riportava il dorso locale della Nazione di sabato 4 maggio comunicando i “floridi risultati” di un “istituto in buona salute”. Recuperare clienti fuggiti è necessario per accrescere la redditività di Mps, ma è “una delle sfide più difficili per qualsiasi banchiere”, dice un dipendente veterano di Mps. Gli attuali vertici lo fanno proponendo varie offerte. In primis un conto corrente (“Conto italiano di deposito”) con interessi annui del 4,75 per cento: tasso molto vantaggioso, e molto più alto rispetto a quello offerto dai concorrenti, e quindi “sintomo di una banca in difficoltà nel fidelizzare la clientela”, dice lo stesso dipendente.

Mps è anche in crisi di liquidità. Ha già ricevuto i finanziamenti della Banca centrale europea (senza averli ancora restituiti) e ha bisogno di nuovi capitali. Ultimamente viene promossa la seconda edizione dell’iniziativa “Un Monte di Risparmi”. Il Cliente (nel prospetto con la “c” maiuscola) può trasferire in Mps “gli strumenti finanziari detenuti presso altre banche” per ottenere degli sconti e dei rimborsi spese. Per avere i “significativi vantaggi”, il Cliente deve però aderire al servizio “Prestito titoli” in base al quale cederà in pegno azioni o obbligazioni di cui il Monte potrà poi disporre come crede. I maligni pensano che Mps intenda usare i bond italiani dei risparmiatori come collaterale per ottenere altri fondi dalla Bce: un modo per finanziarsi tramite la clientela più fiduciosa. Il quadro complessivo di una banca in perdita fissa da due anni e un’attività allo sportello indebolita dal panico mediatico rende Mps meno appetibile per un eventuale investitore estero, sebbene valga in Borsa solo 2,6 miliardi e sia dunque una preda facile. Ironico notare che Gabriello Mancini, da presidente della Fondazione, disse nel 2006: “Mps non farà la preda”, così da frenare le mire di conquista nei confronti del Monte della Banca nazionale del lavoro; piglio fiero che è stato il motore dell’operazione Antonveneta. Profumo vorrebbe evitare la nazionalizzazione e dice che “tutte le strade sono aperte”. Dipende da dove portano.

Difficile però riuscire a restituire il prestito statale (Monti bond) con gli interessi, perciò l’ingresso dello stato in Mps risulta complicato da scongiurare. Non che piaccia a tutti, è una cicatrice per i senesi: durante il fascismo, il duce Benito Mussolini voleva prendersi il Monte. Ci fu una rivolta generale e la minaccia di marciare su Roma. Testimoni oculari raccontano al Foglio che “davanti a Rocca Salimbeni alcune squadracce di fascisti senesi picchiarono il direttore generale del Monte, l’onorevole Alfredo Bruchi, perché in combutta con Mussolini per togliere il Monte a Siena”, l’ipotesi (coincidenza) alla fine svanì. Adesso un’altra possibilità è l’ingresso di un socio straniero. Per questo, però, bisogna cambiare lo statuto della banca e togliere lo sbarramento del 4 per cento (solo la Fondazione può avere una quota maggioritaria), e per togliere tale soglia si sta adoperando Profumo. Profumo è membro nel consiglio di sorveglianza (supervisory board) della banca russa Sberbank, una casualità che i soliti maligni con l’occhio lungo considerano un presagio. Gli ultimi conti trimestrali di Mps, comunicati mercoledì scorso al mercato, mostrano perdite sul periodo di 100 milioni di euro, meno di quanto si attendevano gli analisti, quando però un anno prima, nello stesso trimestre, la banca era in utile per 54 milioni; sono dati che hanno comunque galvanizzato il management, più fiducioso in un ritorno (seppure complesso) alla redditività vista soprattutto la frenata nella caduta dei ricavi dimostrata dal bilancio. In ogni caso, la convinzione generale è che in un modo o nell’altro Mps si salverà, grazie all’aiuto dello stato (tuttora subordinato al via libera europeo che dovrà arrivare quest’estate), e passerà la bufera ma completamente trasformata, cioè si aprirà al mercato. Il dubbio è come cambierà di conseguenza la città di Siena: banca e cittadini respirano insieme dal 1472, anno della fondazione di Mps, e funzionano (funzionavano?) come un solo organismo.

 

Il suicidio di Rossi, la strategia della ricompensa e la “fine” di Siena

Lo scandalo finanziario assume definitivamente sui media i tratti del giallo quando il manager della comunicazione di Mps viene trovato morto la sera del 6 marzo. David Rossi, 51 anni, aveva le vene tagliate quando giaceva supino sul selciato di un vicolo senza nome all’interno del comprensorio di Rocca Salimbeni, con i piedi rivolti verso il muro. Se ne sono accorti i paramedici, arrivati per soccorrerlo, quando hanno provato a sistemare gli elettrodi sui polsi per sentire il battito cardiaco, ormai assente (“era già ghiaccio”). Due ambulanze sono arrivate sul posto circa un’ora dopo la morte. E’ caduto alle 19.49 da quasi dieci metri d’altezza, dall’ultimo piano della sede di Mps, dalla finestra del suo ufficio. Queste circostanze sono state ricostruite sul campo durante il fine settimana in cui si sono celebrati i funerali di Rossi, e anche confermate all’Ansa da “fonti giudiziarie”. Dal momento che Rossi è stato trovato di schiena – posizione all’apparenza anomala per un suicida – ai soccorritori è bastato vedere le vene recise per escludere l’ipotesi di un omicidio, supposizione rilanciata dai media con il megafono di Beppe Grillo un mese dopo il fatto (“Da quando si è buttato (lo hanno buttato?) dalla finestra di un ufficio dell’Mps dopo una lunga telefonata sulla città è calata una cappa che si taglia con il coltello. Qualcuno si chiede chi sarà il prossimo, la vox populi senese dà per certo che Rossi non sarà l’ultima vittima”, frase scritta da Grillo sul suo blog e rilanciata dai telegiornali nazionali). Le due ambulanze si sono allontanate dal vicolo, nei pressi di via dei Rossi, per tornare in ospedale. Un’ambulanza però è stata subito richiamata per un’emergenza in via Garibaldi, alle porte della città toscana. Era per la madre di Rossi colpita da un malore. In quel momento nella casa della famiglia del manager era in corso una perquisizione della polizia. Fuori, nel parcheggio, c’erano quattro utilitarie dei poliziotti in borghese (per non attirare l’attenzione). Dentro casa, invece, gli agenti, dopo avere vinto la diffidenza dei parenti di Rossi, hanno sequestrato degli archivi digitali e una macchina fotografica, dicono dei testimoni oculari. Rossi non era indagato, ma aveva già subìto un sequestro di materiale informatico. Secondo fonti a conoscenza delle intenzioni del sostituto procuratore Nicola Marini, il “caso Rossi” andrebbe verso l’archiviazione in quanto motivato da cause personali, al momento non chiare. La posizione del giudice non è però così netta e, sebbene le indagini siano ufficialmente concluse, il caso resta aperto perché durante i sequestri è stato acquisito materiale relativo all’inchiesta parallela su Antonveneta che invece è ancora in corso. La famiglia di Rossi aveva già subìto un lutto mesi prima, quello del padre di David (questa è stata una delle primissime ipotesi circolate sulla stampa per motivare il gesto, insieme alla frustrazione per le critiche che Rossi riceveva dai blog locali). Secondo persone vicine alla famiglia, i parenti non si rassegnano a parlare di suicidio e covano ancora dubbi. Ultimamente parlano di una mail inviata da David ai capi di Mps, Profumo e Viola, in cui lui avrebbe minacciato di suicidarsi nel caso fosse stato messo da parte. Rossi stava infatti per perdere il ruolo di direttore marketing e comunicazione dell’istituto pur rimanendo sempre nell’organico, non sembrava cioè un licenziamento in tronco.

Rossi per Mps è stato però molto di più di un addetto stampa, tra il 2006 e il 2011 ha gestito un portafoglio pubblicitario milionario: indirizzava la pubblicità, pianificava il marketing, controllava le sponsorizzazioni, dirigeva la comunicazione esterna, filtrava le informazioni in uscita e quelle che gli impiegati del Monte potevano assumere dal Web quando si trovavano in ufficio. Era uno stretto amico di Mussari, il quale lo chiamò in banca nel 2006 dopo averlo preso alla Fondazione (all’esordio Rossi faceva l’impaginatore in un giornale locale con scarse attitudini e prospettive di crescita professionale, poi è stato assunto come addetto stampa dall’ex sindaco Pierluigi Piccini). Con l’approdo in Fondazione è iniziata l’ascesa, anche di potere, a braccetto con Mussari. Rossi era stimato e ben visto nel suo lavoro, così lo ricordano banchieri e manager. Non è lo stesso, invece, per alcuni giornalisti con cui si confrontava (e scontrava) e per chi si è visto affossare dei progetti imprenditoriali su spinta di Mussari e per mano di Rossi perché non erano gestiti direttamente dal Monte. Il controllo diffuso da parte di Mps sulla città di Siena e su tutto quel che le orbitava attorno era, infatti, vissuto come un’esigenza da parte di Mussari, banchiere “straniero” di origini calabresi innamorato della squadra di basket locale, la Mens Sana. David tra novembre e dicembre dell’anno scorso si è fatto promotore, insieme ad altri, di un progetto politico, quello dell’Associazione 53100 (il codice di avviamento postale di Siena). Più che altro una lista elettorale, nata “alle cene del mercoledì” in un ristorante locale, che sarà presente anche alle imminenti elezioni comunali. E’ diventata in realtà una lista di disturbo (come anche altre a Siena) per togliere voti al Pd e creare i presupposti per il ballottaggio. Rossi aveva quindi anche un ruolo politico in città, sebbene marginale. Ora David riposa al cimitero del Laterino. Il giorno successivo alle esequie, una domenica, non si sono viste personalità della banca a fargli visita durante il pomeriggio. Erano però presenti al funerale. Quel fine settimana la contrada della Lupa, quella di David, era deserta, silenziosa come molti altri vicoli del borgo. Altrove, nella centrale piazza dei Tolomei, chiamata così in onore di un’antica e nobile famiglia senese, c’era un predicatore considerato un pazzo dagli anziani del posto che sovente si mette a bofonchiare sotto la statua della Lupa, il simbolo di Siena. Farfugliava frasi da moralizzatore: “E’ il dio denaro, il dio divertimento sessuale. Guai a chi tocca questi idoli, per loro siamo pronti a uccidere e anche a suicidare”. Folklore che non ha scosso i passanti distratti; di certo poteva essere usato per colorire questo scandalo un po’ di più. E’ interessante notare, invece, un fatto passato sotto traccia: nell’ultima assemblea di Mps, David non è stato ricordato pubblicamente dagli azionisti, dai manager o dai soci presenti. Rossi era l’ultimo “figlio della lupa”, l’ultimo senese all’apice del Monte. Ha subìto lo stesso destino di Mussari, è diventato uno sconosciuto (“L’appestato Mussari ora a Siena nessuno lo conosce”, era uno strillo sulle locandine delle edicole cittadine).

Anche tramite il lavoro dietro le quinte di Rossi, il Monte ha distribuito soldi a pioggia. Ce n’era per tutti. Un metodo, quello delle partite di giro, che adesso i politici in lizza per lo scranno comunale non esitano a definire “mafioso”. Sebbene sia al più feudale, familiare, il nipote malato delle gabelle medievali. E’ in ogni caso un do ut des: dare (soldi) per ricevere (consenso). La distribuzione diffusa del profitto bancario ha imbolsito i comuni cittadini, operosi ma poco avvezzi all’iniziativa privata, perché tanto il “Babbo Monte” era lì per darti una mano se non lo criticavi, pena la dannazione attraverso la chiusura totale dei rubinetti nei confronti dei dissidenti (il modus operandi di Mussari). Per avere contezza di un’attività imprenditoriale effimera basta guardare i filari di negozi in franchising che corrono lungo le vie in saliscendi del centro cittadino: è più facile gestire una boutique griffata per turisti anziché creare un’impresa originale.

Capire se senza i “sussidi” del Monte, i senesi troveranno lo slancio è una preoccupazione della montante classe dirigente del borgo toscano dopo il commissariamento delle casse comunali e, giocoforza, delle istituzioni (alle elezioni del 26 e 27 maggio corrono 500 persone per 32 posti in consiglio comunale, i candidati sindaco sono 8 divisi in 16 liste, fioriscono quelle civiche). A frequentare l’alta società senese, non sembra però che l’urgenza di rimboccarsi le maniche sia condivisa e forse nemmeno percepita. La prospettiva di dovere fare da soli non è contemplata dalla borghesia, il cui credo è stato quello del laissez-faire per sé e per tutti; finché ce n’è, finché ce n’era. Questa visione affidata al Foglio da chi respira l’aria rarefatta dei “piani alti” è anche una spia dello scollamento della società comunale toscana, che conserva l’imprinting etrusco del loco civile, della municipalità, del piccolo borgo chiuso tra “quattro mura”: in basso, brulica l’orgogliosa normalità della maggiore parte dei senesi, i dipendenti di Mps, delle controllate, dei servizi, i negozianti e i ristoratori che coccolano gli immancabili visitatori. In alto, invece, scorre distaccata un’aristocrazia affluente difficile da individuare per le strade durante il giorno; c’è troppa confusione. I fantasmi si manifestano sul fare della sera quando i vicoli sono sgombri: se sono uomini indossano il frac, se sono donne portano cappelli piumati e, all’uscita dal teatro, puntano alla porta delle mura medievali diretti ai poderi in collina su una Porsche bianca potente ma silenziosa. E’ un divario caratteristico della società odierna, più evidente in un borgo, e che a Siena diventa essenziale colmare con la consapevolezza di un’epoca giunta al tramonto perché il crepuscolo del bancocentrismo toglierà la rassicurante ombra del Monte dal capo dei senesi. Gli stessi che al Monte avevano accordato fiducia, chiesto favori, rivolto preghiere e tirato bestemmie.

 

Giuseppe MussariNato a Catanzaro nel 1962, è stato al vertice della Fondazione Monte Paschi e in seguito è stato presidente di Banca Mps dal 2006 al 2012, quando è stato sostituito dal nuovo management. E’ stato presidente dell’Abi per tre anni; carica dalla quale si è dimesso in maniera irrevocabile nel gennaio scorso con l’emergere delle operazioni di ristrutturazione dei derivati in Mps. E’ indagato per truffa, ostacolo alle autorità di vigilanza, aggiotaggio e falso in bilancio in relazione al suo ruolo di presidente di Mps. E’ stato chiesto il sequestro di parte del suo patrimonio, e in seguito revocato. L’assemblea dei soci Mps ha votato a favore dell’azione di responsabilità nei suoi confronti. E’ anche coinvolto nell’inchiesta sul fallimento del pastificio Amato; procedimento per cui ha ricevuto un avviso di garanzia. E’ stato invece chiesto il rinvio a giudizio per Mussari con l’accusa di falso ideologico in concorso e turbativa d’asta nel processo per l’ampliamento e privatizzazione dell’aeroporto di Ampugnano, lo scalo di Siena.

Gianluca Baldassarri - Finanziere, è considerato l’uomo che ha portato la finanza all’interno del Monte. Secondo indiscrezioni sarebbe stato Vincenzo De Bustis, un altro broker, a farlo entrare in Mps nei primi anni Duemila. Baldassarri è accusato di associazione per delinquere, truffa e anche di riciclaggio (in Svizzera) perché l’ipotesi dell’accusa è che abbia fatto transitare delle commesse ottenute impropriamente con operazioni in titoli derivati su dei conti all’estero; faceva parte della cosiddetta “banda del 5 per cento”. Questo è un filone d’indagine che coinvolge anche altri finanzieri legati, come Baldassarri, alla finanziaria di Lugano Lutifin. Baldassarri venne multato dalla Consob nel 2005 per avere venduto ai clienti dei prodotti finanziari ingannevoli quando era a capo di Banca 121, istituto pugliese acquisito in precedenza da Mps. Era considerato vicino sia a Giuseppe Mussari sia ad Antonio Vigni e viene espulso da Mps nel marzo 2012 per volere del nuovo ad Fabrizio Viola. Baldassarri è l’unico indagato agli arresti.

Antonio Vigni Esautorato dalla direzione generale di Mps con l’arrivo del nuovo management all’inizio dell’anno scorso. Vigni ha 59 anni ed è entrato al Monte all’età di diciannove, ha conseguito la laurea in Scienze politiche e sociali all’Università di Siena. In Mps si è occupato principalmente dell’attività retail, cioè della gestione operativa delle filiali: un’esperienza molto pratica per un banchiere, e quindi distante dalla finanza strutturata; nonostante ciò è stato Vigni a gestire le operazioni di ristrutturazione dei derivati. Anche Vigni è tra gli indagati  nel filone d’indagine relativo alle operazioni finanziarie di Mps con gli stessi capi d’imputazione contestati a Mussari. Vigni, dopo una lunga carriera, è stato congedato dal Monte con una buonuscita da 4 milioni di euro che, sommata alla regolare retribuzione di 1,4 milioni, lo rende il banchiere più pagato nel 2011 con un compenso totale lordo di 5,4 milioni. L’assemblea dei soci Mps ha votato a favore dell’azione di responsabilità nei suoi confronti, così come per Mussari.

Alessandro ProfumoGenovese di 55 anni, è stato amministratore delegato di Unicredit prima di assumere la presidenza di Mps nell’aprile 2012. Tra i due incarichi si è dedicato in particolare all’ideazione di una boutique finanziaria a Milano. E’ coinvolto in un’inchiesta per evasione fiscale risalente a quand’era al vertice di Unicredit, la cosiddetta “operazione Brontos”; da sempre si dichiara sicuro della correttezza delle sue azioni. Profumo ha assunto l’incarico in Mps quando la banca era già in perdita da un anno, le condizioni patrimoniali ora si sono aggravate, e il presidente ha il difficile compito di riportare l’istituto a buoni livelli di redditività. Profumo vorrebbe evitare la nazionalizzazione di Mps a seguito del salvataggio di stato e propende per l’ingresso di uno o più soci nuovi all’interno dell’azionariato della banca. Date le difficoltà patrimoniali di Mps, Profumo ha annunciato un piano di ristrutturazione fatto di tagli al personale e riduzione degli sportelli; oltre alla chiusura (preventivata) di attività estere marginali.

David RossiSenese, è morto suicida il 6 marzo scorso a 51 anni. Le indagini sul caso sono formalmente concluse ma non sono ancora state rese pubbliche. Era il capo della comunicazione e marketing di Mps dal 2006, l’ultimo senese rimasto ai vertici della banca. Aveva assunto l’incarico grazie anche al rapporto di fiducia e amicizia che lo legava a Mussari; erano amici fin dall’università. In precedenza è stato addetto stampa dell’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, prima di approdare in Fondazione Monte Paschi quando Mussari era il presidente. Secondo indiscrezioni, stava per perdere il suo incarico presso Mps quando si è tolto la vita. Il suo ruolo nella città di Siena era più ampio di quello di un semplice addetto stampa: a Siena era in pratica considerato la “longa manus” di Mussari per la gestione delle sponsorizzazioni e della pubblicità; questo era un metodo usato per controllare da vicino anche i progetti non finanziati direttamente da Mps, progetti che il vecchio management osteggiava. Non era indagato.

Fabrizio ViolaRomano di 54 anni, è stato chiamato alla direzione generale di Mps nel gennaio del 2012 (da maggio ricopre anche la carica di amministratore delegato). Secondo indiscrezioni, prima di assegnare l’incarico a Viola, sono stati contattati anche altri manager bancari d’esperienza; lui ha accettato il compito. Prima di arrivare al Monte è stato per quattro anni amministratore delegato della Banca popolare dell’Emilia Romagna, la sua formazione è quella di gestore del portafoglio bancario (asset management); campo nel quale ha operato all’inizio della sua carriera, a fine anni Ottanta. Ora è considerato il punto di riferimento degli analisti e degli investitori per capire le direttrici del processo di ristrutturazione e di riorganizzazione dell’istituto senese. Nel marzo scorso, dopo i risultati negativi relativi all’esercizio 2012, Viola ha risposto circa le criticità derivanti dalla fuga di correntisti generata dallo scandalo mediatico per il bilancio di Mps. In precedenza aveva già avviato delle consultazioni interne per gestire il problema.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.