Foto LaPresse / Michael Sohn 

Le ricadute dell'invasione dell'Ucraina sulla nostra economia

Marco Abatecola e Sofia Felici

Il timore più sentito rimane legato agli effetti delle tensioni sul nostro approvvigionamento energetico, ma a preoccupare è anche il rallentamento dei consumi e il rialzo dei prezzi

L’invasione russa in Ucraina riacutizza una fase di incertezza dalla quale si stava lentamente uscendo dopo due anni di pandemia, dando vita a una nuova fase di tensioni che trascina il Geopolitical Risk Index a un picco che non si vedeva dalla seconda guerra del Golfo. Ciò si concretizza in un inasprimento delle diverse criticità che l’economia stava già affrontando: alti prezzi energetici e volatilità sui mercati. Ne conseguono un rallentamento dei consumi e un ulteriore fattore di pressione per i margini delle imprese italiane, che già sopportano un incremento dei prezzi alla produzione del 22 per cento su base annua. L’aumento dei prezzi di energia e commodity porta, poi, anche a un rialzo dei prezzi dei beni al consumo e delle aspettative inflazionistiche a breve termine. I dati provvisori registrano così a febbraio un aumento del 5,7 per cento su base annua, il più alto  dal ‘95. Le prospettive che un tale incremento si prolunghi sono più che plausibili. Non solo perché a trainare l’inflazione contribuisce la componente non core,  legata ai beni energetici, ma anche perché è cresciuto il rischio di difficoltà permanenti lungo le catene globali del valore.


Una situazione che si innesta su un sentiero di crescita appena intrapreso e sull’incertezza legata alle prossime decisioni di politica monetaria. Le politiche espansive hanno, infatti, concorso a un rialzo dell’inflazione inaspettato e a un aumento generalizzato del debito. Alcune banche centrali hanno  avviato un percorso di stretta monetaria, anticipando le mosse della Fed che deve far fronte a un’inflazione al 7 per cento negli Stati Uniti. Diverse appaiono le aspettative dalla Bce, che potrebbe procrastinare il suo intervento proprio in relazione al conflitto in corso. 
Ma in generale il timore più sentito rimane legato agli effetti delle tensioni sul nostro approvvigionamento energetico, in particolare sul fabbisogno di gas naturale, la prima fonte italiana – tanto che il nostro consumo energetico vi dipende per il 40 per cento, e il 48 per cento del totale viene impiegato per produrre elettricità – che importiamo per il 43 per cento proprio da Mosca. Dieci anni fa era del 27 per cento, a dimostrazione di come la Russia abbia saputo massimizzare le proprie risorse – nonostante rappresenti appena il 2 per  cento del pil globale e lo 0,2 per cento dei mercati dei capitali – sfruttando la scarsità relativa dei beni energetici e rafforzando la dipendenza europea.

 

La produzione europea di gas  ha invece proseguito lungo un trend decrescente, riducendo la produzione autoctona del 66 per cento dal 1990 e lo stesso vale per Italia (-76 per cento),  Germania (-70 per cento) e  la Francia (-100 per cento). La maggior quota importata dall’Ue proviene da quattro  “corridoi”: Nord Stream, Yamal, Ucraina, e Turkstream. Nel 2021 il 30 per cento del gas diretto in Europa proveniva dall’Ucraina, il 40 per cento da Nord Stream e il resto da Yamal e Turchia. Le rilevazioni  riportano ora un flusso di appena il 14 per cento dall’Ucraina. Non è difficile comprendere perché siano così vive le preoccupazioni legate al destino della nostra dipendenza energetica. 
Come il Covid è stato  un acceleratore di alcuni processi, così questa crisi porterà il nostro paese a rivedere la sua politica energetica. Con maggiore attenzione ai rischi geopolitici e con una più consapevole politica interna, le cui scelte – o non scelte – ci hanno portato a una tale situazione. E non solo in tema di maggiore diversificazione delle fonti ma anche nella diffusione di tecnologie alternative che avrebbero potuto contribuire a un abbassamento della tensione, sia sui livelli di fornitura che su quelli di prezzo.

 

Sono temi che la realtà di oggi – in una transizione di portata epocale – ci impone di affrontare con urgenza. Consapevoli del fatto che nessuna potenziale perdita in termini di maggior crescita (Oxford Economics stima una riduzione del tasso di crescita del pil per l’Eurozona nel 2022 tra -0,2 e -0,4 rispetto allo scenario pre-conflitto e nel 2023 tra -0,4 e -0,6 ), potrà giustificare eccezioni e distinguo nella difesa della nostra  idea di civiltà e di mondo libero. Un’idea che è certamente fondata sul mercato, sugli scambi e sul benessere, ma che affonda prima di tutto le sue radici nella libertà e nel diritto all’autodeterminazione di uomini, popoli e nazioni, come valori irrinunciabili che vanno difesi a qualunque costo, imponendo argini all’avanzata di orde illiberali provenienti dall’estero, ma alle cui idee qualcuno ha strizzato l’occhio anche dentro i nostri confini.

 

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