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I problemi e le soluzioni

Gli isterismi ideologici da evitare sulla rinascita energetica

Carlo Stagnaro

Non demonizzare gli investimenti fossili, aumentare le politiche pro-rinnovabili e pro-nucleare. Idee per il piano B

Contrordine compagni: tutto quello che era prioritario passa in secondo piano, e tutto quello che era finito nel dimenticatoio della politica energetica si riprende la scena. Alla Camera, Mario Draghi ha messo in discussione i pilastri della nostra strategia, evocando misure che la contraddicono clamorosamente, dalla ripresa delle estrazioni di gas naturale alla riaccensione degli impianti a carbone e addirittura olio combustibile per garantire la continuità delle forniture. 

 

Ieri il governo ha portato le sue proposte a Bruxelles, dove il Consiglio ha discusso su come affrontare la situazione. Questo presuppone, ovviamente, misure straordinarie, come l’emissione di bond per prevenire il collasso finanziario del settore energetico e fornire sollievo ai consumatori domestici e industriali di energia. Tuttavia, giustamente il ministro Roberto Cingolani, nel lungo colloquio col Foglio, ha ricordato che troppo spesso ci siamo fatti prendere la mano dalle contingenze. È successo nel 1987 e nel 2011, col no al nucleare. Si è ripetuto tra il 2015 e il 2018, col sostanziale abbandono della produzione nazionale di gas. 

 

Adesso i nodi vengono al pettine. Ma, in un settore nel quale gli investimenti richiedono anni e durano decenni, la stabilità è un valore. Bisogna dunque correggere gli errori, non stravolgere le scelte. Quali errori? Da un lato, abbiamo demonizzato tutto ciò che non è “verde” (qualunque cosa possa significare); dall’altro, ci siamo mossi di sussidio in sussidio, come Tarzan tra le liane. Invece, gli obiettivi ambientali vanno declinati con realismo, come ha chiesto Ferruccio De Bortoli sull’Economia del Corriere. Incentivi e disincentivi dovrebbero riflettere le esternalità: se due tecnologie producono lo stesso beneficio (per esempio ci fanno risparmiare una tonnellata di CO2) allora vanno premiate allo stesso modo. Non importa se si tratta di rinnovabili, nucleare o cattura e stoccaggio della CO2. Allo stesso modo, le fonti inquinanti vanno penalizzate in funzione dei relativi impatti: il paradosso è che la stessa tonnellata di CO2 è sanzionata in modo più severo se esce dal tubo di scappamento di un’automobile che se proviene dal camino di una centrale a carbone. 

La transizione deve fare spazio anche alle altre dimensioni della politica energetica, cioè la sicurezza e la competitività. Una politica basata sull’elargizione di sussidi discrezionali ha determinato extracosti che ci hanno a lungo penalizzato: oltre 12 miliardi di euro all’anno. Peggio ancora, l’assolutismo verde ha contribuito alla fuga dei capitali dalle fonti fossili, causando quella politica di disinvestimento che ha fatto crollare le estrazioni nazionali di gas da quasi 20 miliardi di metri cubi alla metà degli anni Novanta agli attuali tre. Insomma: se ci siamo scoperti dipendenti dalla Russia, è anche un po’ per i veti sulle risorse domestiche. 

 

Come uscirne, allora? Nel lungo termine, è essenziale promuovere la diversificazione delle fonti. Quindi, spingere l’acceleratore sulle rinnovabili. Eolico e fotovoltaico, in particolare, possono fornire un contributo fondamentale, come già fanno, specialmente nei periodi in cui gli input (sole e vento) sono abbondanti. Bene ha fatto il governo a prevedere semplificazioni drastiche e a tagliare costi e tempi della burocrazia. Basta tuttavia evitare quella stessa miopia che ci ha indotto a credere che questo potesse bastare: purtroppo non è così, almeno finché le batterie e gli altri sistemi di accumulo non saranno disponibili su larga scala a costi e con prestazioni accettabili. Vanno anche riconsiderate tutte le altre tecnologie disponibili, come sembra stia facendo la Germania in relazione al programma di uscita dal nucleare.

La trasformazione tecnologica del settore elettrico richiede un adeguamento delle regole. È un caso in cui cambiamenti di breve termine ed esigenze di lungo periodo si incrociano in modo stridente. In pratica, in ogni ora del giorno il prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica dipende dall’impianto più costoso necessario a soddisfare la domanda in quel momento. In un contesto caratterizzato sempre più da pale, pannelli e altre fonti che non hanno spesa per il combustibile, il prezzo di equilibrio è sempre meno rappresentativo del costo medio di generazione. L’Italia, assieme alla Spagna e altri, ha sollevato da tempo questo problema: la crisi del gas conferma che la discussione è improrogabile. Inoltre, le rinnovabili non servono solo a produrre elettricità, che oggi soddisfa all’incirca un quinto del nostro fabbisogno energetico complessivo. Ci sono anche le rinnovabili termiche e l’efficienza energetica. E ci sono, soprattutto, biometano e biocarburanti. Il vantaggio di queste tecnologie è che possono sostituire quelle tradizionali (gas e derivati del petrolio) con limitati cambiamenti nella catena del valore, dai gasdotti ai motori delle automobili o dei macchinari industriali.

 

La seconda risposta consiste nella diversificazione dei partner commerciali. Tutti gli scenari ci dicono che continueremo a consumare gas. Putin ci ha ricordato una lezione che Winston Churchill aveva enunciato più di un secolo fa: “La sicurezza e la certezza del petrolio stanno nella diversificazione e nella diversificazione soltanto”. Il passo più semplice è abbandonare l’assurdo atteggiamento che ha caratterizzato l’Italia e gran parte dell’Europa nei confronti delle risorse nazionali. Esse vanno estratte, anche perché – a parità di altri elementi – dovendo percorrere una rotta più breve dal pozzo al fornello, il trasporto del gas implica minori emissioni. Dato un certo livello dei consumi, tutto ciò che non viene prodotto deve necessariamente essere importato. Per la medesima ragione, vanno potenziate le infrastrutture per le quali ciò è fattibile in tempi brevi e con costi limitati: per esempio va studiato il raddoppio del Tap, se l’Azerbaijan sarà in grado di offrire abbastanza gas da riempirlo. Vanno coltivati i rapporti con altri fornitori, dalla Norvegia agli Stati Uniti, dall’Algeria alla Libia. Forse è percorribile anche la strada del potenziamento degli attuali terminali di rigassificazione. 
Più complessa è l’ipotesi di riprendere i progetti di terminali accantonati.

 

Quando furono proposti, quindici o venti anni fa, apparivano necessari. Nel frattempo, tutto è cambiato. Gli stessi scenari che ci dicono che dovremo far pace col gas, suggeriscono che i volumi richiesti tenderanno a scendere. Abbiamo bisogno di più sicurezza, ma non necessariamente di moltiplicare infrastrutture destinate a restare sotto o per nulla utilizzate. O, quanto meno, vanno inserite in una strategia di respiro europeo, che contempli anche il rafforzamento delle interconnessioni interne, sia di elettricità, sia di gas. Per esempio, la capacità di trasporto di metano dalla penisola iberica via Francia è inadeguata: ciò aumenta la dipendenza dei paesi dell’est dalla Russia e lascia semivuoti i terminali spagnoli (il cui tasso di utilizzo è inferiore al 25 per cento). La tassonomia degli investimenti sostenibili, peraltro, esclude le attività nell’upstream e le infrastrutture per il trasporto del gas (pur ammettendo in alcuni limitati casi la realizzazione di impianti per la generazione elettrica da gas). Ennesimo esempio di quanto quel dibattito, visto col senno di poi, fosse surreale e vada completamente ripensato. 

 

Infine, dovremmo mobilitare tutte le risorse disponibili per arrivare preparati al prossimo inverno: è imprescindibile che, all’inizio della stagione, gli stoccaggi siano pieni. Normalmente questa attività è delegata agli operatori, che trovano nel differenziale di prezzo tra l’estate (quando domanda e prezzi sono bassi) e l’inverno (quando accade il contrario) un naturale incentivo a farlo. In questo anno pazzo, i futures danno però un messaggio sinistro: i prezzi estivi sono allineati a quelli invernali. Per giunta, con questi livelli dei prezzi anche gli oneri finanziari connessi all’acquisto e l’immobilizzazione di rilevanti volumi di metano possono essere proibitivi. Rischiamo di arrivare a settembre col fiato corto. L’esecutivo dovrebbe considerare misure eccezionali per stimolare lo stoccaggio estivo, per esempio consentendo l’attribuzione della capacità a prezzi negativi. Rispetto a tale rischio, la discussione sugli stoccaggi europei o gli acquisti congiunti rischia di essere una pericolosa distrazione. Intanto, il problema non sta nella forza negoziale, ma nella eventuale disponibilità di volumi di gas. Secondariamente, a differenza dei vaccini, il gas non viene acquistato dagli stati e da essi distribuito: la sua compravendita è un’attività commerciale (con importanti risvolti di sicurezza) svolta da privati. Questi operatori, molti dei quali sul mercato da decenni, hanno le competenze, i contatti e gli strumenti necessari. Sarà ben difficile che soggetti istituzionali privi di esperienza possano fare meglio. Diverso è costruire meccanismi di resilienza (parola che abbiamo smesso di usare proprio quando serve) e di mutuo soccorso tra gli stati membri dell’Ue. 

In sintesi, ha ragione Draghi quando denuncia gli errori di politica energetica. Nel passato abbiamo guardato al domani ignorando i problemi di oggi: evitiamo di rispondere ai bisogni immediati trascurando le necessità future.
 

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