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il foglio del weekend

Se anche Eni e Intesa scommettono sull'eccellenza di Bonifiche Ferraresi

Stefano Cingolani

Altro che chip e semiconduttori: la pandemia ci ha fatto riscoprire l’importanza dell’agroalimentare e il gioco geopolitico delle sementi. Al punto per cui anche Eni e Intesa ora investono sui nostri campioni nazionali.

Vittorio Merighi, intraprendente maggiore dell’esercito, dopo aver combattuto agli ordini di Vittorio Emanuele II e salutata l’unità d’Italia, decide di pensare agli affari suoi, cioè fare affari grazie ai grandi progetti che il nuovo Regno mette in cantiere con capitali italiani (pochi), capitali stranieri (molti) e debiti (ancora di più). Nel 1863 convince il conte Francesco Aventi, cultore dell’idromeccanica, e l’ingegner Francesco Magnoni a mettersi insieme per prosciugare le due grandi paludi ferraresi, il Polesine di San Giovanni e il Polesine di San Giorgio. Si tratta di ben centomila ettari da recuperare all’agricoltura che rappresenta sia al nord sia al sud del Po il settore economico prevalente. La vicenda si fa ancor più intrigante quando entrano in scena la contessa Teresa Gatteschi, gentildonna fiorentina tutta pepe, e un gentleman inglese con amicizie a Westminster, il maggiore John Standley, il quale vanta di poter coinvolgere niente meno che Richard Bethell, primo barone di Westbury e cancelliere dello Scacchiere per la regina Vittoria. Bugie, bufale, fake news: lo Standley si rivela un volgare affarista acchiappa-gonzi, la contessa si ritrae (forse complice o forse anche lei ingannata), Lord Westbury non si materializza e soprattutto non scuce una sterlina, Merighi si ritrova senza un quattrino ed esce di scena sbuffante e riluttante. Passano nove lunghi anni, ma il conte Aventi non dimentica il progetto originario e tenta di rilanciarlo con nuovi soci e alleati, sempre inglesi, però timorati se non di Dio quanto meno del mercato. L’11 aprile 1871 firma a Firenze, con i mandatari della Public Works Construction Company Limited, una convenzione dalla quale nasce, il 20 luglio, in un ufficio della City, The Ferrarese Land Reclamation Company Ltd., la cui versione italiana si chiama Società per la bonifica dei terreni ferraresi e ha come oggetto sociale “la bonifica di laghi, nell’acquisto di paludi e terreni nelle vicinanze di Ferrara e in altre località del Regno d’Italia e nella costruzione o la compera di canali, corsi d’acqua, lavori d’irrigazione, moli, scali, ferrovie, strade, fabbricati e macchine locomotive”.  

 

Gli esordi sono disastrosi, con difficoltà inattese di fronte alle quali si arrendono persino gli olandesi, intervenuti con idrovore e tecniche speciali che nei Paesi Bassi avevano dato prove miracolose. L’intera vicenda è stata ricostruita nel 2005 da Antonio Saltini ne “L’epopea della bonifica nel Polesine di San Giorgio”, esperto di agraria e narratore di vicende agricole. Al termine di un decennio perduto in tentativi pressoché inutili, la società si scioglie nel 1882. Sedici anni dopo, torna operativa e non solo in provincia di Ferrara, ma anche in provincia di Arezzo, di Brindisi e di Lecce. La superficie posseduta cresce fino a 16.000 ettari, che si riducono a 6.500 alla vigilia del primo conflitto mondiale. Dal 1918 al 1929 riprende l’attività di bonifica e si estende fino a 25 mila ettari. Finché non arriva il crac di Wall Street nel 1929  e poi la Grande depressione. Le Bonifiche Ferraresi affondano questa volta nei debiti e finiscono travolte dalla catena dei crolli bancari, nel 1933 interviene l’Iri con l’aiuto della Banca d’Italia che si accolla i crediti in sofferenza. Così dal 1942 sarà proprio la Banca centrale a diventare azionista numero uno. E, strano ma vero, lo resterà fino al 2014. La più estesa proprietà agricola italiana (nonostante sia stata via via dimezzata vendendone apprezzamenti per fare cassa) appartiene per settant’anni alla Banca d’Italia. Non è una manomorta, semmai una bella addormentata.

 

Perché questo tuffo così indietro nel tempo? Non per eccentrica curiosità né per finire anche noi nella palude sia pur metaforica dei sogni impossibili, delle occasioni perdute e degli imbrogli che accompagnano spesso le grandi imprese, ma perché sulla Bonifiche Ferraresi (con le due maiuscole) si sono accesi i riflettori della cronaca. Infrastrutture e agro-industria sono diventate il sale dello sviluppo post pandemia e questa vicenda esce così dall’archeologia economica o dalle nebbie padane. Conti, contesse, ufficialetti e speculatori inglesi lasciano il posto a banchieri, industriali, agricoltori italiani. Mentre affilano le unghie famelici (e affamati) predatori cinesi. Un’altra saga, un’altra storia.

 

La notizia più recente è che l’Eni e Intesa Sanpaolo sono entrate nel capitale della BF Spa – che sta appunto per Bonifiche Ferraresi, quotata alla Borsa di Milano. Con un esborso complessivo di 40 milioni di euro, l’Eni acquisterà il 3,32 per cento della holding BF e il 5 per cento di Bonifiche Ferraresi attraverso un aumento di capitale riservato, per dare vita poi a una società in joint venture paritetica con BF che si occuperà di ricerca, sperimentazione e analisi su sementi di piante oleaginose da utilizzare per le bio-raffinerie: cotone, lino, soia, arachide, girasole, sesamo e soprattutto ricino. Sì, il famigerato olio di ricino servirà non più per la purga, ma per alimentare i motori a scoppio. Verranno utilizzate solo le terre marginali e nulla sarà sottratto alla produzione di cereali tradizionali o biologici. Nel frattempo, al termine di un aumento di capitale riservato, Intesa otterrà il 3,32 per cento di BF, sborsando 20 milioni di euro. 

 

Per capire la logica di questi investimenti dobbiamo tornare al 2014, quando la Banca d’Italia vende all’asta le Bonifiche ferraresi. Il 78,3 per cento, valutato circa 178 milioni di euro, viene acquisito da BF Holding, la società veicolo costituita da investitori privati, con Federico Vecchioni, ex presidente di Confagricoltura, nel ruolo di amministratore delegato. Partono una serie di aumenti di capitale per 260 milioni di euro e alla fine il principale socio diventa la Fondazione Cariplo guidata da Giuseppe Guzzetti con il 35,7 per cento, seguita dal gruppo farmaceutico del milanese Sergio Dompé con il 17,9 per cento. Carlo De Benedetti con il 14,7 per cento e, con quote inferiori, la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, il gruppo autostradale Gavio, la famiglia piemontese Mondino, il gruppo Cremonini, l’imprenditrice Ornella Randi Federspiel. Nel febbraio 2017 la società acquisisce un migliaio di ettari in provincia di Oristano dalle Bonifiche Sarde, in liquidazione da dieci anni. Oltre il 70 per cento dei terreni della BF si trova a Jolanda di Savoia (Ferrara), cui si sommano circa 300 ettari a Mirabello (Ferrara), 1.350 ettari nella provincia di Arezzo, mille ettari ad Arborea (Oristano). Si coltivano riso, mais, grano duro e tenero, orzo, barbabietole da zucchero, erba medica, girasole, soia, orticole piante officinali e frutta. Viene rilevata anche la Sis (Società italiana sementi), un vero gioiello fonte di profitti, ma ci sono altri due passaggi importanti nell’assetto del capitale. In quello stesso 2017 entra la Cassa depositi e prestiti guidata da Claudio Costamagna, mentre due anni dopo esce De Benedetti e la catena azionaria cambia ancora con un ruolo più ampio di Vecchioni diventato il quarto socio (con il 12,9 per cento) dopo la Fondazione Cariplo (20,7 per cento), Cdp equity (18,8 per cento), Sergio Dompè (14 per cento). Intesa Sanpaolo concede una serie di finanziamenti a medio termine e il suo amministratore delegato Carlo Messina diventa così un sostegno fondamentale insieme a Guzzetti, Costamagna e Dompè.

 

Motore di questo rivolgimento è Federico Vecchioni. Un motore che viaggia sempre a pieni giri. E’ l’impressione che ha fatto anche a noi quando lo abbiamo incontrato negli spogli uffici del sontuoso palazzo Rospigliosi, accanto alla Corte costituzionale e in faccia al Quirinale (prestare attenzione alla toponomastica del potere non guasta mai). Alto, robusto, energico, loquace, anzi affabulatore, è nato a Padova nel maggio del 1967, coniugato, due figlie, laurea in Scienze agrarie presso l’Università di Firenze, debutta in Toscana nell’azienda agricola di famiglia (Il Cicalino a Massa Marittima) integrando gli originari uliveti con coltivazioni specializzate super intensive, la produzione di biomasse e il turismo. Dal 1992 avvia il suo percorso sindacale nella Confederazione Generale dell’Agricoltura Italiana, come consigliere e presidente degli agricoltori della provincia di Grosseto per diventare nel 2004 il più giovane presidente nazionale. Nel 2009 viene chiamato a presiedere Agriventure S.p.A. del Gruppo Intesa San Paolo, una società specializzata nel sostenere gli investimenti e fornire servizi di consulenza alle imprese dell’agribusiness, che nel 2014 viene incorporata in Mediocredito Italiano del quale Vecchioni diventa consigliere. Nemmeno lui sfugge alla tenaglia giudiziaria: nel 2012 è accusato di truffa, insieme alla moglie Elisabetta Pasinato, per la gestione del parco fotovoltaico in Toscana. Quattro anni dopo, la vicenda si conclude perché “il fatto non sussiste”. La politica lo tenta brevemente, il diavoletto tentatore è Luca di Montezemolo che lo nomina coordinatore di Italia Futura, ma dura lo spazio di un mattino e torna alla terra, alla sua maniera. 

 

Dopo la privatizzazione e la quotazione in Borsa, la terza fase nella metamorfosi di Bonifiche Ferraresi è l’operazione Cai, acronimo di Consorzi agrari d’Italia. Il progetto parte dalla Coldiretti lo storico sindacato dei contadini, con l’obiettivo di coordinare la capillare rete distributiva dispersa nel territorio, senza toccare la proprietà che resta locale. Viene deciso di creare una società della quale la BF diventa partner fornendo capitale e managerialità. Parte un fuoco nient’affatto amico, viene scritto che rinasce la Federconsorzi con i soldi pubblici. La replica è che i quattrini sono privati e la vecchia federazione fondata nel 1892, in mano dal 1948 alla Coldiretti e alla Democrazia cristiana, non c’entra. Il solo evocarla getta un’ombra fosca perché ricorda il clamoroso scandalo del 1991 un anno prima di Tangentopoli. Nemesi volle che fosse il democristiano Giovanni Goria, ministro del Tesoro, a imporre un commissario dopo che le banche avevano ritirato i loro fidi. I tentativi di riesumare il grande carrozzone del potere bianco nel 2011 e nel 2015, non sono andati in porto. E i consorzi sono rimasti piccoli potentati territoriali.

 

La pandemia è stata una prova drammatica, ma anche una lezione da imparare a memoria, secondo Vecchioni. Cosa sarebbe accaduto se si fosse interrotta la catena del cibo? Altro che chip, altro che regali natalizi. Il Covid-19 ha portato alla ribalta l’importanza della filiera agro-alimentare italiana e la sua rilevanza strategica. L’ultima conferma in ordine di tempo è la guerra delle sementi. I fondi d’investimento proprietari dell’azienda Verisem la mettono in vendita nella primavera scorsa e tra i pretendenti spicca Syngenta, un gigante da 13 miliardi di dollari, braccio operativo svizzero della ChemChina che controlla tra l’altro la Pirelli. Vecchioni parte lancia in resta, chiede che il governo eserciti il suo potere di veto, anzi propone un golden power sulla terra. Le sementi, da sempre risorsa fondamentale, oggi entrano nel grande gioco geopolitico, al pari delle terre nobili, dei metalli rari o degli idrocarburi. La Cina con un miliardo e 400 milioni di abitanti da sfamare e appena il 15 per cento delle terre coltivabili ha bisogno di derrate alimentari. Il Brasile per la soia, l’Argentina per la carne, l’Italia per la sua specializzazione e il suo alto expertise nell’agroindustria. Il 27 ottobre, con un decreto, Mario Draghi sbarra la strada ai cinesi. La Coldiretti canta vittoria, ma non c’è il rischio di un tuffo in quel protezionismo che ha soffocato tanto a lungo le forze produttive? L’Italia è diventata una potenza economica tra le prime dieci al mondo perché esporta e finora ha saputo difendere la propria quota senza alzare paratie. La riforma della globalizzazione dona nuova centralità all’agricoltura che è nello stesso tempo un veicolo di coesione sociale, sottolinea Vecchioni. La BF intende muoversi da protagonista sul mercato mondiale, tuttavia per competere occorre il prodotto nazionale, insomma bisogna avere le radici nella terra, nella propria terra e lo sguardo oltre frontiera.

 

Bonifiche Ferraresi, dunque, coltiva il giardino, ma non come il Candide di Voltaire; vuole essere luogo d’incontro tra produzione agricola, ricerca, industria, distribuzione, finanza privata e pubblica. “Siamo in Emilia, Toscana, Sardegna e Piemonte, intendiamo crescere anche in altre regioni, sempre seguendo le nostre filiere, pasta, cereali, riso, ortofrutta, miele, zootecnia e piante officinali”. Insieme all’Eni c’è un progetto pilota in Ghana per valorizzare le produzioni di riso, frumento e frutta tropicale, destinate soltanto ai mercati locali. Vecchioni si mostra particolarmente orgoglioso del polo accademico a Jolanda di Savoia, del Master di I livello dell’Università degli Studi della Tuscia in Agricoltura di precisione, della rete accademica che si estende alle Università di Teramo, Padova, Firenze e Salerno oltre agli enti di ricerca. La BF Spa, insomma, è diventata una piattaforma che comprende la genetica con Sis, gli impianti di trasformazione (BF Agroindustriale), la tecnologia e i servizi per l’agricoltura di precisione (IBF Servizi), la rete territoriale con Cai che vuol diventare la versione verde della grande distribuzione. Il bilancio 2020 si è chiuso con ricavi per 94,45 milioni di euro, in Borsa capitalizza 602 milioni. Per resistere alle multinazionali come Monsanto, Cargill, Bayern, la BF deve crescere ancora; non bastano le nicchie, senza una taglia adeguata non è possibile raggiungere l’eccellenza. “Il nostro futuro”, spiega Vecchioni, “sta nell’esportare non tanto un prodotto specifico, ma il patrimonio storico di conoscenza e quello che è frutto degli ingenti investimenti compiti in questi anni”. Vasto programma, un modello di business in cui grandi realtà agricole con diversi livelli di sviluppo richiedono “piattaforme capaci di sviluppare la produzione agro-alimentare in una logica di sostenibilità e salvaguardia della terra, che è il vero patrimonio da tutelare. Il pianeta conta circa un miliardo e mezzo di ettari nel mondo, di questi appena 300 milioni sono irrigui e poi la terra è finita”. Già, non ce ne rendiamo conto, ma la terra finisce, forse prima di quanto immaginiamo noi industrialisti offuscati dalla cornucopia digitale. 

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