Nicholas Frisardi, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons 

Povero fisco

Il labirinto della riforma delle tasse

Michele Magno

Chi vuole più welfare, chi abolire la povertà e chi le diseguaglianze. Ma al centro ci sono sempre e solo le tasse. Storia breve di un ginepraio

Semplificare il groviglio delle imposte sul reddito è la condizione essenziale affinché gli accertamenti cessino di essere un inganno, anzi una farsa. Affinché i contribuenti siano onesti, fa d’uopo anzitutto sia onesto lo stato... Oggi, la frode è provocata dalla legge. 
Luigi Einaudi


Dopo la presentazione del disegno di legge delega del governo, accantonata la polemicuzza sull’aggiornamento del catasto, la questione delle tasse ha fatto il suo ingresso con clamore sulla scena nazionale. Nessuna sorpresa, visto che milioni di italiani votano con il portafoglio in mano e che il nostro fisco resta vorace, sclerotizzato e inefficiente, severo con i deboli e mite con i forti. Tuttavia, poiché soprattutto a sinistra abbondano le descrizioni di un paese sull’orlo del Terzo mondo, è utile ricordare alcuni dati che, pure in gran parte noti, spesso vengono occultati nel dibattito pubblico. Si riferiscono all’anno passato. Sono stati elaborati da Itinerari Previdenziali, il Centro studi diretto da Alberto Brambilla (fonti: Istat, Agenzia delle entrate e ministero dell’Economia). 

Tasse, tutti i record dell'Italia

Eccoli. L’Italia è al primo posto in Europa per possesso di abitazioni, autoveicoli, cellulari; al secondo per animali da compagnia. Sono oltre 17 milioni i nostri concittadini che hanno giocato d’azzardo almeno una volta, e 2,5 milioni quelli che giocano abitualmente nelle 140 mila sale scommesse. Siamo primi in Europa per le macchinette da gioco ubicate in 85 mila esercizi commerciali. L’Irpef totale ammonta a oltre 171 miliardi di euro, mentre per il solo gioco d’azzardo – legale e illegale – gli italiani rischiano tra i 127 e i 147 miliardi. Per conoscere il futuro da maghi e fattucchiere, poi, spendiamo più di quanto viene accantonato annualmente per i fondi pensione. Inoltre, sono più di otto milioni i pensionati assistiti totalmente o parzialmente dalla fiscalità generale, tre milioni le persone che godono del reddito o pensione di cittadinanza e altri tre milioni che beneficiano degli ammortizzatori sociali: moltiplicati per il numero medio di persone a carico (1,48) abbiamo venti milioni di italiani che, in un modo o nell’altro, sono assistiti dallo Stato. 

Quindi, chi paga le tasse? Il 57 per cento circa dei contribuenti versa un’imposta sul reddito pari a quindici miliardi. Ma per garantire loro il diritto alla salute, alla scuola e all’assistenza occorrono almeno 174 miliardi. La differenza è a carico soprattutto del 13 per cento dei contribuenti che hanno redditi sopra i 35 mila euro, e che, da soli, versano il 59 per cento dell’Irpef. Infine, è vero che le persone in povertà assoluta nel 2008 erano poco meno della metà rispetto a oggi. Senza  però dimenticare che gran parte della povertà economica deriva dalla povertà educativa e sociale di cui soffrono quasi dieci milioni di cittadini, molti dei quali affetti da dipendenza da alcol, droghe, ludopatie o da altri problemi alimentari come anoressia e bulimia. Una lunga schiera in cui andrebbe incluso anche chi viene a trovarsi in situazioni di improvvisa difficoltà in seguito a precoci separazioni o divorzi. Benché, dunque, il numero dei poveri sia in salita, non siamo un paese povero. Siamo però un paese che ha un’evasione fiscale e un’economia sommersa stratosferiche, e che tra quelli dell’Ue è tra gli ultimi per dinamica della produttività e per investimenti nella ricerca. 

Ovviamente, l’elenco delle più o meno nascoste ricchezze e delle più o meno clamorose povertà nazionali andrebbe ben altrimenti circostanziato, ma va tenuto comunque presente per valutare  principi e finalità di alcune proposte di riforma fiscale oggi in campo, dall’abbassamento delle aliquote per il mitico ceto medio alla flat tax. Matteo Salvini, nonostante l’accordo raggiunto tra i partiti della maggioranza per una riduzione degli scaglioni da cinque a quattro e un calo delle aliquote centrali dell’Irpef, ha ribadito più volte che quest'ultima per la Lega resta il perno di un nuovo sistema fiscale. . L’idea è che la riforma si ripaga da sola, perché riducendo le tasse si rimette in moto l’economia. Si tratta di una storia troppo bella per essere vera. Infatti, le evidenze empiriche ne raccontano un’altra: le riduzioni di tasse in deficit producono deficit, buchi di bilancio che prima o poi vanno coperti con tagli della spesa o con altre tasse. 

Di segno diverso è la flat tax elaborata non molto tempo fa dall’Istituto Bruno Leoni, che prevede un’aliquota unica del 25 per cento per le principali imposte, l’abolizione di Irap e Imu, una profonda revisione della spesa pubblica. Ma, come hanno spiegato gli estensori della proposta, prima si taglia la spesa e poi si tagliano le tasse. Condizione che la rende incompatibile con i moltiplicatori magici di Salvini. La riforma del think tank liberale prevede anche l’introduzione di un “minimo vitale”, ossia un trasferimento monetario diretto ai più poveri in sostituzione dell’odierno caotico sistema di prestazioni assistenziali. Si tratta, quindi, di una riforma fiscale e del welfare che include temi vicini al centrodestra, come la riduzione della pressione impositiva, ma anche cari al centrosinistra, come la lotta alla povertà. 

Uno dei primi economisti a proporre l’accoppiata tra flat tax e minimo vitale è stato negli anni Settanta del secolo scorso il Nobel per l’economia Milton Friedman, esponente di spicco della scuola di Chicago, ma ha avuto tra i suoi sostenitori anche esponenti dell’intellettualità progressista come Tony Atkinson, eminente studioso del problema delle diseguaglianze (scomparso nel 2017). Per i suoi sostenitori, la flat tax ha due caratteristiche fondamentali: semplifica enormemente il sistema fiscale e ne limita la progressività. La semplificazione è ovviamente un grande vantaggio, di fronte a sistema fiscale come quello italiano, zeppo di una miriade di tributi, agevolazioni, deduzioni, detrazioni. I limiti che impone alla sua progressività sono invece molto consistenti. La progressività delle imposte, dettato costituzionale a parte, è infatti considerato dalla sinistra un tratto distintivo della cittadinanza democratica. Nel suo sistema di valori, tende a fornire un’assicurazione sociale nel breve periodo e una protezione delle fasce più deboli nel medio-lungo periodo. Per i “più cinici”, si potrebbe aggiungere, è anche necessaria alla pace sociale. E’ pertanto difficile che il Pd possa rinunciarvi senza pagare un altissimo prezzo tra i suoi elettori (Romano Prodi ha detto che, se lo facesse, “perderebbe l’anima”). 

Del resto, storicamente l’idea-forza della sinistra nel campo fiscale è stata la concentrazione del prelievo su un’unica imposta sul reddito, personale e progressiva. Dei due criteri aristotelici assunti da Adam Smith come cardini dell’ordinamento tributario – il principio commutativo (equivalenza tra valore dell’imposta e servizio pubblico) e il principio distributivo (equivalenza tra imposta e capacità contributiva) – la sinistra ha sempre puntato sul secondo. Negli ultimi decenni, però, questa idea-forza è entrata progressivamente in crisi. A questa crisi, segnalata già a metà degli anni Ottanta da economisti come Antonio Pedone e Giorgio Fuà, hanno contribuito prima l’inflazione, con il suo cieco automatismo di drenaggio fiscale, poi la crescente complessità della società di massa. Elusa o evasa da gruppi corporativi e dai ceti della rendita, la sua equità ne è risultata gravemente compromessa. Si può dire che qui sta il male: nel non aver resistito a queste pressioni. Ma si deve anche riconoscere che tali pressioni divengono obiettivamente irresistibili quando si pretende di caricare tutto il peso dell’imposta su un solo indice di capacità contributiva, con una scala di progressività che induce in tentazione anche i più virtuosi e che determina fatalmente una resistenza accanita allo Stato esattore sul terreno politico. 

Perché le tasse sono terreno di scontro politico

È in questo contesto che esplose il fenomeno leghista alle elezioni amministrative del 1990. Umberto Bossi riuscì a interpretare sapientemente la protesta dei ceti medi del Nord contro il sistema fiscale e la torsione assistenzialistica del welfare domestico, in cui era sempre più evidente lo scarto tra risorse prelevate e benefici erogati. Il sipario sulla prima stagione repubblicana cala con questa pesante eredità. Nel passaggio di secolo la crisi dell’imposta personale e progressiva non ha scosso, tuttavia, la fiducia granitica della sinistra nell’articolo 53 della Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). Si è aperta, è vero, una riflessione sulle sue contraddizioni e, in alcuni ambienti accademici, sono state formulate proposte di riforma radicale, ma che non sono mai riuscite a varcare la soglia della provocazione intellettuale. Penso, in particolare, a quella che si è ispirata alle teorie di economisti come Nicholas Kaldor e James E. Meade: la trasformazione dell’imposta personale sul reddito in una imposta personale sulla spesa. Il suo fondamento concettuale risale a Thomas Hobbes: è più giusto che un cittadino sia tassato per ciò che preleva dal “fondo comune”, che per ciò che vi apporta. Se la sinistra è stata identificata con il “partito delle tasse” una ragione c’è. 

L’incremento del prelievo fiscale è in buona parte avvenuto fra fine Ottocento ed inizi Novecento per finanziare lo sviluppo dello Stato assistenziale. In Gran Bretagna, i conservatori che lo avversavano ne imputavano la responsabilità all’allargamento del suffragio, che aveva portato in Parlamento i rappresentanti delle classi popolari. Lasciare ai liberali le decisioni sulla spesa sociale – si disse allora – era “come nominare il gatto guardiano della ciotola del latte”. L’origine dell’equazione sinistra eguale più tasse è qui. La sinistra vuole più welfare. Più welfare significa più tasse. Una parte non piccola della sinistra ha introiettato questo atteggiamento, e quindi ritiene che abbassare le tasse significhi semplicemente tagliare lo Stato sociale tout court. 

Agli inizi degli anni Cinquanta Thomas Marshall poteva sostenere che nel welfare state in via di costruzione era implicita una tensione verso l’eguaglianza. Alla prova dei fatti, questo pronostico si è rivelato un abbaglio. Basti pensare all’incapacità, anche nelle versioni più interventiste dello Stato sociale, delle forme più dure e mortificanti di povertà. Come all’incapacità di estirpare le radici maschiliste dell’apparato dei diritti di cittadinanza. Si pensi, inoltre, al fenomeno della formazione di una vera e propria “underclass” nei paesi industrializzati: uno strato di soggetti emarginati non solo in termini economici, ma etnici. 

L’esperienza storica del welfare, in altri termini, porta ad affermare una tesi esattamente opposta a quella del grande sociologo inglese, che solo i moralisti accademici della sinistra possono ignorare, e cioè che libertà ed eguaglianza possono entrare in conflitto tra loro. Senza inoltre dimenticare un dato incontrovertibile, occultato nelle pieghe di un debito pubblico abnorme. E cioè che le protezioni sociali dipendono, in misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato. Sfidati dai cambiamenti demografici, della famiglia e del lavoro, i sistemi di welfare sono sulla graticola dei governi da quando non è stato più possibile pagarli aumentando le tasse. Sono stati finanziati indebitandosi. E il debito, prima o poi, occorre restituirlo. 

Non basta l'appello alla lealtà dei contribuenti

Se le cose stanno così, non basta l’appello alla lealtà e al senso civico dei contribuenti. Non bastano i “patti fiscali” tra Stato e cittadini, le procedure telematiche, la tracciabilità della moneta, una decisa semplificazione normativa. Tutti provvedimenti importanti, sia chiaro. Occorre che la spesa pubblica corrisponda davvero a un ragionevole costo dello Stato sociale. Magari promuovendo modelli di welfare locale non gestiti da mastodontici apparati burocratici. “Frusta fit per plura quod potest fieri per pauciora” (è inutile fare con più ciò che si può fare con meno), è la formula di cui il filosofo e frate francescano trecentesco Guglielmo di Ockham si servì per eliminare molte delle entità ammesse dalla Scolastica tradizionale. Più tardi questa regola, nota col nome di “rasoio di Occam”, fu espressa anche con la formula “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” (Non moltiplicare gli elementi più del necessario). Essa invita a realizzare il massimo risultato con il minimo sforzo nel campo della logica. Un principio di semplicità che, se adottato sul terreno fiscale, avrebbe risparmiato molte pene agli italiani.

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