David McNew/Getty Images 

La grande balla della fine della globalizzazione

La pandemia non ha ucciso i commerci, anzi. Numeri (anche italiani) di una crescita continua e inevitabile

Stefano Cingolani

Si fa presto a dire che la crescita export-led è fragile di fronte alle crisi. La realtà è che dal miracolo economico in poi, tra alti e bassi, ha sempre spinto l’economia del nostro paese. E sul Financial Times Megan Greene conferma la forza del mercato mondiale

Sorpresa, la globalizzazione è ricominciata, la grande macchina mondiale si è messa in moto come prima e anche più di prima. Ma come, viene da chiedersi, la catena spezzata del valore, il decoupling, il reshoring, il ristagno cinese, l’economia della scarsità: sono solo bolle oppure balle? Non tutte e non del tutto, la frattura c’è stata e ci vuole tempo per ricomporla, la mancanza di chip, la scarsa offerta di materie prime, l’impennata dei prezzi del gas, non sono illusioni, ma passeranno. La grande balla è la fine della globalizzazione, una narrazione alla quale non credere. Lo scrive sul Financial Times  Megan Greene della Harvard Kennedy School, che porta le prove, fatti e dati.

  

Nel nostro angolo di mondo, l’Italia, che poi non è esattamente un cantuccio con un prodotto lordo tra i primi dieci, una quota significativa del commercio internazionale, una bilancia estera ampiamente in attivo (3,9 per cento del pil a confronto del 3,4 giapponese e dell’1,9 per cento cinese), ebbene da qui possiamo trovare ampie conferme. Se davvero il mercato mondiale fosse bloccato e si stesse accartocciando su se stesso, come potrebbe l’Italia esportare tanto e fare ancora una volta da locomotiva alla ripresa che, come ormai è chiaro, è la più robusta dell’intera Europa? 
      

Secondo il rapporto della Sace, le esportazioni italiane di beni in valore cresceranno quest’anno dell’11,3 per cento, più che compensando il calo del 9,7 per cento del 2020, una dinamica che si manterrà anche nel triennio successivo a livelli superiori ai tassi pre-pandemia. “È il made in Italy bellezza. Quel calabrone capace di volare dato sempre per spacciato”, come ha scritto Marco Fortis sul Sole 24 Ore. Su 352 prodotti Ateco a cinque cifre (la combinazione alfanumerica che individua i prodotti) nei primi sette mesi dell’anno ben 197 avevano uguagliato o già superato i livelli dello stesso periodo del 2019. Un boom che è andato dai mobili alla meccanica, dai prosciutti ai vini, dalla chimica ai macchinari e così via. Si fa presto a dire che la crescita export-led è fragile di fronte alle crisi, la realtà è che dal miracolo economico in poi, tra alti e bassi, ha sempre spinto l’intera economia del paese. Può essere sostenuta da una domanda interna più consistente, da un settore dei servizi più solido ed efficiente, da buste paga più pesanti, da una produttività più sostenuta. Ed è questo che occorre fare con le riforme e il Pnrr. Ma tant’è.

   
     

Su scala più ampia, Megan Greene conferma la forza del mercato mondiale. Ripercorriamo la sua analisi. La rotta transpacifica fra l’Asia e l’America è trafficata più che mai. Il porto di Los Angeles ha visto volumi record a settembre. Ricordiamo che il porto di Gioia Tauro, primo attracco delle navi che passano per Suez, non ha smesso di lavorare a pieno regime nemmeno con la pandemia. Gli investimenti esteri diretti in Cina hanno superato quelli negli Usa già lo scorso anno, dunque non è fondata la convinzione che le imprese occidentali si stiano ritirando, magari lentamente, ma decisamente. I dati grezzi dicono proprio il contrario. E le indagini campionarie? La banca britannica Hsbc ha condotto un sondaggio in dieci paesi, esclusi Giappone, Taiwan e Corea del sud, dal quale risulta che sei grandi imprese su dieci stanno espandendo le loro catene produttive in Cina o hanno già programmato di farlo il prossimo anno. Il 97 per cento delle aziende ha programmato di investire almeno un quarto dei loro utili operativi nell’Impero di mezzo. Il vero decoupling, dunque, è tra economia e politica
    

Ciò non significa che non ci siano problemi. Il giro di vite del regime si è sentito. Il protezionismo e lo scambio ineguale fanno salire i costi, a cominciare dai salari, le regolamentazioni ambientali sono più rigide, le autorizzazioni più complicate (la burocrazia è la miglior difesa dei sistemi non democratici) e le tensioni tra Pechino e Washington preoccupano in particolare le multinazionali americane. Tutto questo è vero ed è destinato a influire sulla strategia delle imprese e sulla loro organizzazione produttiva e commerciale; la globalizzazione cambia volto, si trasforma, ma non regredisce. Megan Greene chiama questa strategia “Cina più uno”. In che cosa consiste? Nel mantenere le fabbriche a Pechino, ma proteggendole con accordi di fornitura stipulati altrove, per esempio in Thailandia, Vietnam, Malesia per restare in Asia o magari anche in Europa, seconda nel comparto industriale. Altri l’hanno chiamata la strategia “Just in case”, che soppianta via via quella “Just in time” che ha dominato la globalizzazione pre-pandemia.

  

Nella maggior parte dei casi, le imprese usano un misto tra le due impostazioni, cioè producono à la carte in relazione stretta con la domanda (l’Alfa Romeo ha annunciato che userà questo approccio dal 2023), tuttavia si tengono le scorte di componenti o di prodotti finiti pur senza riempire magazzini e piazzali come succedeva un tempo. “Non c’è dubbio, la catena dell’offerta si sposterà dopo la pandemia – scrive Megan Greene –, il sistema di scorte just in time probabilmente cambierà e la Cina potrà perdere alcuni business. Ma la globalizzazione produttiva è ben radicata”. Prendiamo i semiconduttori, la cui mancanza crea enormi problemi. Uno dei più grandi gruppi mondiali, il Taiwan Semiconductor Manufacturing, sta costruendo una fabbrica in Arizona, ma non sarà pronta prima del 2024, quando, molto probabilmente, la crisi attuale sarà superata. Anche alcuni comparti del made in Italy stanno seguendo questa strada, sia pure con cautela: per esempio nel tessile e nella moda, nella meccanica, nella componentistica automobilistica. L’Europa si è lanciata sulle Gigafactory per produrre batterie senza dipendere dagli Usa o dall’Asia: ci vogliono tempo e tanti quattrini. È una scelta politica più che economica, è in ballo la sicurezza, è in ballo il consenso perché porta posti di lavoro e, quindi, voti (anche se non è un’equazione scontata). La politica ha le sue ragioni che non hanno sempre una ragione economica. Ma questa è un’altra storia. 

Di più su questi argomenti: